Migrazioni: realtà e percezione
Intervista a Maurizio Ambrosini
Emigrazione, immigrazione. Le storie di chi parte da una terra e cerca di stabilirsi in un’altra fanno ormai stabilmente parte dell’agenda mondiale. In Europa il tema assume una centralità maggiore perché a una tendenza storica costante, di crescita della quota di popolazione straniera, si è aggiunta la questione ancora aperta dei richiedenti asilo in arrivo dalla Siria e da altri contesti di guerra.
Ne abbiamo parlato con Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle Migrazioni all’Università degli Studi di Milano.
Professore, in tempi recenti abbiamo assistito alla crescita dei flussi dell’immigrazione. Tutto ciò ha suscitato un dibattito molto intenso, e preoccupato, nelle società europee.
Se guardiamo ai soli numeri, arriviamo alla conclusione che l’86% dei rifugiati, a livello globale, non sta in Europa. Ciò nonostante, nel continente prevale una percezione di “invasione”. La divaricazione tra immigrazione percepita e reale è fortissima, e spesso è viziata dal fatto che il dibattito si concentra non sull’immigrazione in quanto tale, ma proprio sull’arrivo dei richiedenti asilo. In Italia abbiamo per esempio 180mila rifugiati a fronte di più di cinque milioni di immigrati. Si parla molto dei primi e molto poco dei secondi. E questo è uno specchio di questo scarto tra immigrazione percepita e reale che viviamo in Italia come nel resto dell’Europa.
L’Unione europea ha stabilito una serie di azioni per affrontare la questione dei rifugiati. Da un lato, ha chiesto a tutti i suoi Paesi membri di accoglierne una quota, dall’altro ha stretto degli accordi con Paesi di transito quali Turchia, Libia e Niger. Come giudica il piano di Bruxelles?
Parlare di piano risulta molto difficile: c’è un accavallamento tra le varie azioni e, soprattutto, manca il consenso. I Paesi dell’Ue sono divisi, non riescono a mettersi d’accordo. Questo vale in particolare per il programma di redistribuzione, la cui attuazione è largamente insufficiente. Oltre a questo, quell’accordo aveva una grave lacuna: non teneva in considerazione la libertà di scelta del richiedente asilo. Se proprio vogliamo parlare di piano, occorre concentrarsi sugli accordi presi con i Paesi di transito. Ma c’è un lato debole anche qui, perché questi stessi accordi vendono “venduti” come contrasto ai trafficanti di esseri umani.
Il problema del traffico di esseri umani è sovrastimato secondo lei?
Niente affatto. Sottolineo che anche in questo caso, da un punto di vista diciamo antropologico, il richiedente asilo viene visto come un soggetto prevalentemente passivo. Per quanto concerne i programmi di redistribuzione, si ignora il fatto che il richiedente asilo possa avere in testa un Paese dove andare e dove sviluppare un progetto di vita. Qui è invece percepito prevalentemente come vittima dei trafficanti o dei regimi da cui fugge. Ed è costretto a provare di essere vittima, altrimenti corre il rischio di passare per clandestino. Il paradosso è che mentre li si tratta da soggetti passivi, chiediamo ai richiedenti asilo di attivarsi per integrarsi nelle nostre società. Ecco, penso che questo, da parte di noi europei, non sia un buon investimento.
Dall’asilo all’integrazione. Da cosa dipende questo processo?
Molto dal mercato. Nel corso degli anni il mercato ha assorbito più immigrati di quelli che la politica era disposta a far entrare in Europa. Questo dimostra che le scelte dei governi su quote d’ingresso o sicurezza delle frontiere incidono ma non sono onnipotenti. È lecito pensare che, anche in assenza di queste misure, avremmo oggi lo stesso numero di immigrati. La differenza, appunto, la fa il mercato.
Chi integra meglio, in Europa?
La Germania, che fa politica migliori di altri e ha un mercato più grande, e la Svezia, dove l’asilo è in realtà la leva di reclutamento di manodopera per il mercato locale, manodopera che però si inserisce spesso nelle fasce basse del mercato del lavoro. E qui tocchiamo un punto critico. Per esempio può accadere che un farmacista siriano, costretto a fuggire dal suo Paese, arrivi in Germania, si ritrovi a fare l’operaio perché la sua qualifica non viene riconosciuta. Ci sono moltissimi casi come questo. Il mercato del lavoro europeo assorbe, ma è un po’ avaro quando si tratta di includere gli immigrati in certi ambiti, in certe professioni.
Come si può intervenire?
Innanzitutto cambiando i termini, le parole. Un conto è dire “servono immigrati”, un altro “è necessario attirare studenti, infermieri, eccetera”. Ragionando in questo modo la questione diventa più governabile e accettabile da parte dell’opinione pubblica. Altrimenti continuerà a passare l’idea che gli immigrati siano i poveri del mondo che si riversano sulle nostre coste. Ed è un’idea in gran parte sbagliata. I siriani, ad esempio, sono qualificati, la maggior parte di chi è fuggito dalla Siria apparteneva alla classe media, la loro era ed è una domanda di vita migliore.
In che percentuale un immigrato decide a un certo punto di tornare al Paese d’origine?
Esiste l’immigrazione di ritorno, specialmente verso Paesi che vivono una fase di espansione economica, quali la Polonia, la Romania, alcuni Stati dell’America Latina e la Cina. Chi decide di tornare lo fa per agganciarsi alla crescita e sfruttare le opportunità a essa legate. Ma in generale direi che il ritorno è facile a dirsi ma difficile a farsi. Spesso si rimane per questioni pensionistiche, ovvero per non rischiare di sciupare una parte dei contributi versati. Incidono anche abitudini e qualità della vita. Il modo in cui si mangia, o persino il semplice fatto che nei Paesi d’origine non si disponga a ciclo continuo di acqua corrente. Oggi comunque inizia ad affermarsi un nuovo fenomeno: non quello delle migrazioni di ritorno, ma lo spostarsi da un Paese all’altro dell’Europa, le cosiddette “seconde migrazioni”.