Il G7 guarda al futuro
Con 244 milioni di migranti e 65 milioni di richiedenti asilo a livello mondiale è inevitabile che il G7 di Taormina ormai imminente affronti l’argomento delle migrazioni.
I capi di Stato e di governo dei Paesi più industrializzati del pianeta stabiliranno come procedere, negozieranno una dichiarazione e arriveranno a delle conclusioni. Ma si può partire da una certezza, scolpita nei dati appena citati, e in una tendenza che sembra ormai assodata e irreversibile: le società avanzate invecchiano progressivamente e hanno bisogno sia di cervelli che di muscoli se vogliono mantenere la propria sostenibilità socio-economica.
Stefano Scarpetta, responsabile del Direttorato Occupazione, Lavoro e Affari Sociali dell’Osce, ha scritto sul sito dell’organizzazione che “circa 120 milioni di persone residenti nei Paesi Ocse sono nate altrove. Una su cinque è un immigrato o è figlio di immigrati. Ogni anno, negli ultimi dieci, più di quattro milioni di immigrati si sono stabiliti in media nei Paesi Ocse”, giungendo a dire, alla luce di queste cifre, che “l’immigrazione è un fatto della vita ed è destinata a proseguire”.
Ci sono nodi e soluzioni. Tra i primi, il principale consiste nel fatto che i settori dove è richiesto il lavoro degli immigrati sono quelli dove tendenzialmente non serve un’alta specializzazione: agricoltura, assistenza sociale, produzioni a basso valore aggiunto. Molto spesso, tuttavia, chi emigra verso i Paesi occidentali ha un grado di istruzione e formazione medio-alto.
Questo paradosso emerge ad esempio nel caso delle donne immigrate, come risulta da un documento della presidenza italiana del G7. Nei Paesi più influenti della Terra, che ospitano da soli il 40% dell’immigrazione femminile a livello globale, le donne lavorano principalmente in ambiti quali l’educazione, la salute, il sociale. Ma “molti di questi lavori – si legge nel documento – sono precari, temporanei e non retribuiti adeguatamente”. Quindi, tenuto conto che “le immigrate nei Paesi G7 sono generalmente qualificate”, ne consegue che “le probabilità che favoriscano la residenza permanente, la naturalizzazione e il ricongiungimento familiare sono basse”.
Anche negli Stati Uniti i dati rivelano che l’immigrazione, soprattutto quella più recente, è decisamente qualificata. La piattaforma per trovare lavoro Indeed.com, elaborando dati federali, ha evidenziato che il 48% di chi è giunto nel Paese dopo il 2010, e ha un’età superiore ai 25 anni, possiede una laurea. Mentre, considerando la stessa fascia d’età, nel periodo 2006-2010 gli immigrati con laurea erano il 35% e nel 2005-2010 il 27%. Questi cambiamenti si riflettono nell’occupazione. L’immigrazione più recente riesce più facilmente a trovare un impiego, per esempio nel settore dell’Information and Communication technology.
Secondo il professor Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle migrazioni all’Università degli Studi di Milano, si deve compiere lo sforzo di uscire dalla logica per cui l’immigrazione va a occupare le fasce basse del mercato del lavoro, ed è più che disposta a farlo.
Alcune soluzioni pratiche sono state già avanzate. Ad esempio l’Osce, in un paper di qualche anno fa, ancora attuale, ne proponeva alcune. La prima si basava sull’elemento della fiducia tra datore di lavoro e potenziale lavoratore, tramite l’instaurazione di un contatto più diretto tra l’uno e l’altro, per uno scambio a monte migliore. Una seconda si proponeva di correggere il rapporto tra offerta e domanda, solitamente declinato in base alla prima e dunque alle liste delle professioni più scoperte, prevedendo l’istituzione di elenchi di “potenziali migranti” in cui ogni iscritto possa presentarsi e spiegare cosa sa o vuole fare. La terza ricetta, riguardante soprattutto lo spazio europeo, concerneva l’investimento – da parte del potenziale immigrato – sulle lingue di quei Paesi Ue al di fuori dei quali questi stessi idiomi sono poco parlati. In altre parole: creare le condizioni affinché gli immigrati, apprendendo una lingua diversa dall’inglese, dal tedesco o dal francese, si distribuiscano in modo migliore tra i vari Paesi Ue, andando a vivere anche in Stati solitamente non così interessati dai flussi, ma dove il mercato del lavoro è in fermento. In questo senso, l’Ocse suggerisce anche un forte investimento sull’attrazione di studenti stranieri. I futuri talenti.
Il G7, dunque, rappresenta una grande occasione per disegnare il futuro di un fenomeno che segnerà sempre di più la vita delle nostre società e che va governato, con una visione per così dire dall’alto. Si deve decidere se prendere una strada piuttosto che un’altra. Quello che succederà domani si decide oggi.