Un impegno a favore del clima
Intervista a Carlo Carraro
“È come una corsa contro il tempo: da un lato il cambiamento climatico avanza lentamente, dall’altro la tecnologia sta cambiamento rapidamente e rende le rinnovabili sempre più convenienti”.
Il professor Carlo Carraro, direttore dell’International Center for Climate Governance (ICCG), già rettore dell’Università Ca’ Foscari dal 2009 al 2014, fa il punto sull’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico dopo lo strappo degli Stati Uniti e in occasione della Cop23, la Conferenza dell’Onu sul clima che si tiene a Bonn dal 6 al 17 novembre.
Quando l’amministrazione Trump ha deciso di fare marcia indietro sull’Accordo di Parigi del 2015 molti hanno detto che le stesse imprese Usa non lo avrebbero seguito perché ormai la direzione è segnata. È davvero così?
Sì, è abbastanza così, anche perché il Trattato di Parigi entra in vigore nel 2020, dopo la fine dell’amministrazione Trump, quindi anche da un punto di vista formale gli Usa possono tornare a partecipare agli Accordi senza perdere un solo giorno di validità. Tra l’altro l’amministrazione Usa ha detto che raggiungerà comunque gli obiettivi fissati ed è ragionevole che lo faccia perché sono già molto avanti nel raggiungere la riduzione delle emissioni del 26% fissata negli accordi entro il 2025. Però alcune conseguenze finanziarie dello strappo Usa sono importanti. Washington non contribuirà al Green Climate Fund, destinato a sostenere la riduzione delle emissioni nei Paesi in via di sviluppo, con conseguenze politiche importanti perché molti paesi emergenti hanno condizionato il proprio impegno al sostegno finanziario da parte dei Paesi sviluppati: se l’impegno finanziario si dovesse ridurre questi paesi potrebbero sentirsi legittimati a non rispettare i propri impegni. Non dimentichiamo, però, che i Paesi in via di sviluppo incidono pochissimo sul totale delle emissioni: i 20 Paesi più grandi contano per l’85% del totale.
Anche la Cina sembra aver imboccato in modo molto deciso la strada delle energie rinnovabili.
Sì, per ragioni interne: i livelli di inquinamento nelle grandi città e la produzione di energia basata sul carbone non sono più sostenibili. Nella transizione a una forma di energia più pulita e meno costosa il solare rappresenta l’alternativa migliore, non è necessario passare attraverso il petrolio e il gas. Dal punto di vista politico quello dell’ambiente è praticamente l’unico argomento di cui si può discutere liberamente in Cina, i media parlano in termini anche molto critici delle amministrazioni regionali e locali e il governo ha trasformato il tema del rispetto dell’ambiente in una leva di costruzione del consenso.
Il fattore tecnologia mi sembra quello più rilevante: oggi le rinnovabili stanno diventando convenienti.
È così, lo sono già in Europa dove il solare è già competitivo rispetto alle altre energie, negli Usa non lo è ancora perché il gas costa molto meno, ma le stime dicono che lo sarà fra 3-4 anni: oltre Atlantico già si bandiscono aste di fornitura di energia elettrica in cui la fornitura da solare ha prezzi più bassi. Il fattore tecnologico è decisivo.
Per esempio i costi di storage dell’energia elettrica stanno scendendo drasticamente.
Sì, ed è un cambiamento essenziale: senza lo storage il solare sarà sempre incompleto, e avrà sempre bisogno del gas come backup, ma se lo storage diventa conveniente e su grande scala, come sta cercando di fare Tesla, allora il solare sostituisce completamente il fossile, a costi competitivi.
La Cina sta accelerando, l’India ha detto che dal 2030 bandirà la vendita di auto a benzina o diesel, anche Francia e Gran Bretagna vogliono anticipare i tempi. Quando si arriverà a eliminare la CO2 dal mix energetico?
Per eliminarla completamente ci vorrà molto tempo, anche se non è facile prevedere le conseguenze dell’accelerazione tecnologica di cui stiamo parlando: se si procedesse con la velocità di oggi direi non prima del 2050-2060. L’obiettivo che ci siamo dati a livello internazionale è di arrivare sotto il 20% del mix energetico prodotto da combustibili fossile entro la metà del secolo, ed è abbastanza realistico.
Inizia la Cop 23 di Bonn: cosa si aspetta?
Alla Cop 23 tutti confermeranno i propri impegni, senza scontri con gli Stati Uniti. Sarà una conferenza interlocutoria, senza decisioni importanti che dovranno essere prese, invece, nel 2018 quando ci sarà la revisione dell’accordo di Parigi: tutti i paesi dovranno dire se confermano gli impegni oppure addirittura se sono disposti a rivederli in modo più ambizioso. Le conseguenze della decisione della presidenza Trump si avvertiranno più all’interno del Paese perché chiuderanno una serie di finanziamenti alla ricerca sulle rinnovabili anche se la struttura federale degli Stati Uniti fa sì che molte decisioni siano prese a livello statale, non federale, e molti stati come California o Massachusetts andranno avanti nella direzione di prima.
Pochi ricordano che nel 2015, oltre agli Accordi di Parigi, fu firmata anche la Carta dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’Onu. A che punto siamo? Si riusciranno a centrare gli obiettivi?
Quella è una partita più complicata, è un programma molto ambizioso su cui i Paesi stanno lavorando, ma gli obiettivi sono tanti e molto diversi tra loro: istruzione, crescita, sanità, energia, etc. Disegnare un sistema di governance per monitorare gli obiettivi è quindi molto difficile, anche se le scadenze sono vicine, al 2030. Oggi molti paesi sono in ritardo nel definire i criteri di misurazione del raggiungimento dei singoli obiettivi.
Parliamo dell’Economia circolare, un vero e proprio nuovo paradigma economico che prevede la trasformazione dei rifiuti in risorse ad alto valore aggiunto attraverso tecnologie, processi e modelli imprenditoriali creativi. Un’altra economia è possibile?
In realtà si tratta di un ritorno: l’economia circolare era andata di moda molti anni fa, è positivo che ritorni anche perché allora l’idea era emersa forse troppo in anticipo sui tempi. Ora la tecnologia la sta rendendo possibile: i cambiamenti che producono benefici ambientali sono molto meno costosi per le aziende. E poi si registra un cambiamento importante anche nella sensibilità dei cittadini: basti pensare all’olio di palma che - sotto la pressione dei consumatori - è stata eliminata da quasi tutte le produzioni.