Crescita green, Un’occasione di ripensare il pianeta
La ricerca scientifica è spesso l’occasione per distruggere i luoghi comuni. E sin una ricerca appena pubblicata sulla rivista Lancet si spiega, per esempio, che la terra ospiterà 8,8 miliardi di persone nel 2100, due miliardi in meno rispetto alle attuali proiezioni delle Nazioni Unite. La ricerca - Fertility, mortality, migration, and population scenarios for 195 countries and territories from 2017 to 2100: a forecasting analysis for the Global Burden of Disease Study – propone diverse sorprese: decine di Paesi - salvo un afflusso di immigrati – scenderanno sotto la soglia necessaria per mantenere la loro popolazione e più di 20 paesi, vedranno diminuire il loro numero di abitanti di almeno la metà entro il 2100. Sia in Europa ma anche in Asia (Giappone, Corea del Sud, Thailandia e persino Cina). L'Africa sub-sahariana invece triplicherà di dimensioni (la ricerca si può leggere qui.
Ma se le ricerche offrono sorprese non risolvono di per sé i problemi, sia che riguardino la sovrappopolazione o la diminuzione di residenti nel tal Paese: ciò che infatti abbiamo imparato da alcuni anni è che è bene premunirsi per tempo ed evitare, comunque, di dissipare tutte le risorse del pianeta. Lo chiamiamo sviluppo sostenibile ed è questo un settore che ha bisogno di altrettanta ricerca, idee, innovazione, finanziamenti.
Da questo punto di vista l’Asia si sta mettendo all’avanguardia e rappresenta un terreno di sperimentazione interessante soprattutto dal punto di vista tecnologico ma anche da quello della relazione tra salvaguardia ambientale, risorse e sostenibilità come già nel 2012 spiegava un rapporto congiunto di Asian Development Bank (ADB), United Nations Economic and Social Commission for Asia and the Pacific (ESCAP) e United Nations Environment Programme (UNEP). Nel rapporto "Crescita verde, risorse e resilienza" si descriveva un panorama politico ed economico in evoluzione, caratterizzato da un aumento della domanda di risorse, impatti sempre più evidenti dei cambiamenti ambientali e climatici e aumento del rischio e dell'incertezza. Il rapporto forniva nuove informazioni sulle tendenze dell'uso delle risorse in Asia e Pacifico e delineava azioni chiave, tra cui la riforma degli incentivi economici e la promozione di approcci di governance più inclusivi e flessibili per aiutare ad avvicinare le strategie di crescita economica all'obiettivo dello sviluppo sostenibile. A che punto siamo?
Le nazioni dell’area Asia-Pacifico, ha scritto Gregg Jones in Development Asia - un magazine dell’Asian Development Bank che ha dedicato il suo numero del marzo scorso proprio a questo tema (Going Green. Why Asia is moving towarda green model of economic growth) - hanno abbagliato il mondo con la loro crescita economica negli ultimi due decenni, riducendo i tassi di povertà e offrendo un comfort da classe media a milioni di individui. Ma la regione può anche essere un leader in negativo dei sottoprodotti dello sviluppo tradizionale: ridotta qualità dell'acqua e dell'aria, esaurimento delle risorse naturali e pericolo per la biodiversità”. Le piaghe tradizionali del sottosviluppo insomma.
“Tutto questo però sta iniziando a cambiare – aggiunge Jones – e i progetti di crescita verde stanno germogliando”. In fatto di innovazione tecnologica e di capacita green la Cina è un esempio forte: “La RPC è diventata leader nello sviluppo di tecnologie ecologiche. Nel 2009 ha superato Danimarca, Germania, Spagna e Stati Uniti diventando il principale produttore mondiale di turbine eoliche e il suo mercato interno per le turbine è già diventato il più grande del mondo... vanta anche la rete ferroviaria ad alta velocità più lunga del pianeta e detiene quasi 1.000 brevetti locali e internazionali per le tecnologie ferroviarie ad alta velocità”. E forse non è un caso, restando in Asia, che la Corea abbia organizzato a Seul l’anno scorso un vertice sulla crescita verde globale il cui tema era "Costruire una civiltà PlanetResponsible".
L’ascesa di un modello economico diverso non è comunque scevra da problemi in Asia: nel 2005, per esempio, Cina e India avevano una material intensity* rispettivamente di 9,2 e 6,84 chilogrammi per dollaro di Pil mentre il Giappone era a 0,30 kg per dollaro. Ma questo gap si sta riducendo e superarlo, sostiene Nessim Ahmad, direttore dell’ADB’s Environment and Safeguards Division, rappresenta anche un'opportunità per adottare modelli produttivi più efficienti per garantire la crescita “con minori risorse per unità interna lorda di prodotto: un fattore chiave nella regione per uno sviluppo sostenibile”.
*Material intensity (intensità del materiale) è una misura riconosciuta a livello internazionale dei materiali necessari per la produzione, la lavorazione e lo smaltimento di un'unità di un bene o servizio.