Datore di lavoro responsabile

Giappone, le nuove sfide di un’economia avanzata

Il Paese sta affrontando l’invecchiamento demografico e la mancanza di forza lavoro

Un caso di studio particolarmente attuale di interazione tra norme culturali ed economiche è rappresentato dal Giappone. Il paese del Sol Levante è infatti un’economia avanzata che sta rispondendo al drastico invecchiamento della popolazione e della carenza di forza lavoro con drammatici mutamenti delle norme sociali e della cultura del lavoro. 

Sin dal secondo dopoguerra, il repentino processo di modernizzazione del tessuto economico giapponese ha guidato l’evoluzione delle strutture e delle tendenze socio-culturali in questo paese dell’Asia Orientale. Fenomeni come la cosiddetta “Gurobaruka” (traslitterazione in alfabeto hiragana della parola “globalizzazione”), che hanno guidato l’apertura della società giapponese alle tendenze e alle sensibilità di consumo occidentali – si sono affermati come vere e propri slogan utilizzati dai grandi conglomerati giapponesi keiretsu e dai decisori politici del paese, per indirizzare l’evoluzione del tessuto nazionale secondo un indirizzo affine alle esigenze di sviluppo economico.

Dallo scoppio della “bubble economy” giapponese, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, il termine “globalizzazione” è stato soppiantato da quello di “internazionalizzazione” (“Kokusaika”), che è ormai radicato nell’immaginario dei giapponesi sin dai primi anni della formazione scolastica, come chiave fondamentale per il successo delle future carriere professionali. I concetti di “globalizzazione” e “internazionalizzazione” hanno assunto in Giappone due significati ben precisi: il primo denota la capacità di accettare una prospettiva globale, anziché richiudersi nel contesto nazionale. L’internazionalizzazione, invece, è ascrivibile al campo dell’azione, e indica la capacità di competere in maniera competitiva sul palcoscenico internazionale. Il consenso, tra numerosi analisti ed esperti delle vicende giapponesi, è che il processo di internazionalizzazione del mondo aziendale e della società giapponese sia avvenuto ad oggi per lo più al livello delle sue espressioni superficiali. Il progressivo arretramento di colossi giapponesi come Sony, Panasonic e Nintendo di fronte all’emersione di competitori sudcoreani e poi cinesi, negli anni della stagnazione deflattiva, hanno consolidato tale visione anche nei governi, che hanno risposto anzitutto mettendo mano al profilo delle università giapponesi. Il primo ministro Shinzo Abe, ad esempio, ha lanciato durante il suo primo mandato, nel 2014, una iniziativa tesa a includere 10 università giapponesi nella classifica dei 100 migliori atenei del globo.
 

Tali iniziative politiche ha prodotto risultati modesti. Il Giappone si è classificato ultimo tra 11 paesi asiatici, e 51mo su un totale di 63 paesi, nell’Imd World Talent Ranking 2017, come capacità di attrattiva di lavoratori stranieri altamente qualificati. Tali difficoltà sono perlopiù ricondotte a due ordini di problematiche: la barriera linguistica opposta dalla lingua giapponese; e la rigidità delle pratiche e della cultura aziendale giapponesi, che però sta mutando grazie al contributo di aziende multinazionali e di soggetti legati alla new economy, come il colosso dell’e-commerce Rakuten Inc. Aziende come quest’ultima hanno adottato misure straordinarie per “internazionalizzare” se stesse e per agevolare il medesimo processo nel mondo dell’istruzione giapponese, ottenendo mutamenti di vasta portata nel sistema educativo. La programmazione informatica diverrà materia obbligatoria nei curricula delle scuole primarie del paese a partire da aprile 2020. A partire dal 2022, la programmazione diverrà parte integrante dell’informatica obbligatoria per le scuole medie superiori. Il governo giapponese ha stimato nel 2016 che il prossimo anno l’economia nazionale soffrirà un deficit di 290mila tecnici informatici, e di 590mila entro il 2030, ipotizzando una crescita moderata dell’industria IT nazionale. Tali stime hanno spinto il consiglio governativo sulla competitività industriale a promuovere l’inserimento obbligatorio della programmazione nei curricula delle scuole primarie, un’iniziativa subito colta e attuata dai ministeri governativi competenti.

Come sottolineato dal Robert Walters Salary Survey 2018, che traccia un quadro globale delle tendenze professionali e salariali nel paese, le grandi aziende giapponesi sono i principali motori di cambiamento nel paese per quanto riguarda aree come l’utilizzo interno della lingua inglese, l’apertura a professioniste di sesso femminile – in un paese dove la popolazione femminile sconta ancora un ritardo occupazionale rispetto alla media dei paesi occidentali – l’integrazione di candidati non giapponesi e dal profilo identitario e di genere non convenzionali. Il mondo produttivo giapponese, alle prese con una vasta carenza di personale dovuta al progressivo invecchiamento della popolazione – specie nei settori a maggiore intensità di manodopera – è anche il motore principale dietro il mutamento socio-culturale forse più drastico e rilevante del Giappone del dopoguerra: la vasta riforma dell’immigrazione adottata dal paese lo scorso aprile. La riforma, voluta dal premier Shinzo Abe a dispetto delle iniziali perplessità dell’opinione pubblica, introduce nuove tipologie di permessi di soggiorno settoriali per lavoratori stranieri, e si propone di emetterne 340 mila nell’arco dei prossimi cinque anni.

La riforma introduce al contempo una serie di inedite tutele giuridiche e i canali di integrazione per i cittadini stranieri produttivi, e di misure tese a contrastare lo sfruttamento illecito del sistema di assistenza sanitaria e delle procedure legate alla concessione dell’asilo politico. I test linguistici e delle competenze settoriali legati alla concessione dei visti potranno essere sostenuti in Giappone o in sette paesi asiatici: Cambogia, Cina, Malesia, Mongolia, Myanmar, Nepal, Filippine, Thailandia e Vietnam. Un’ultima rivoluzione socio-economica annunciata dal governo giapponese, per far fronte alle esigenze delle aziende, riguarda il settore del welfare. Il governo solleciterà l’assunzione di personale sino ai 70 anni di età e l’introduzione di misure di sostegno agli ex dipendenti affinché trovino un nuovo impiego dopo il pensionamento, fondino nuove imprese o lavorino come freelance.