L’alternativa non è più tra white e blue collars. Il lavoro cambia, la laurea non basta più. Anzi, in futuro conteranno più competenze particolari che studi tradizionali. Per esempio creatività e intelligenza emotiva. Anche perché molte aziende assumono in base a nuovi criteri. L’unica certezza: la matematica diventerà sempre più importante.
Per anni, negli Stati Uniti, la laurea è stata determinante nella ricerca di un buon lavoro. Con la laurea si poteva aspirare a diventare un white collar. Altrimenti il destino era quello del blue collar.
La laurea è importante anche oggi, ma qualcosa sta cambiando. Tra le grandi aziende si fa strada l’idea che, in un’economia che muta profondamente sulla spinta della rivoluzione digitale, la selezione del personale non possa più seguire gli schemi rigidi di una volta. Le professioni stanno cambiando, e diventa sempre più fondamentale valutare le abilità, le skills, possedute dai candidati, quelle competenze che permettono loro di adattarsi ai grandi cambiamenti in corso. A volte possono persino contare più di un buon percorso universitario.
C’è un termine che descrive il nuovo tipo di lavoratore: new collar. Di recente lo ha citato l’amministratore delegato di IBM, Ginni Rometty. In una lista di possibili riforme economiche recapitata a novembre al presidente degli Stati Uniti Donald Trump, suggeriva di creare le condizioni per sviluppare posti di lavoro new collar. “Oggi per ottenere un lavoro a IBM non occorre necessariamente una laurea: quel che più conta sono le abilità”, scriveva la top manager, precisando che da qualche tempo, in settori ancora da esplorare quali cybersecurity, science data, intelligenza artificiale e cognitive business, IBM sta reclutando proprio a partire dalle skills.
Tra i nuovi assunti c’è Sean Bridges, un ragazzo di 25 anni della regione degli Appalachi. Non ha una laurea. Per diverso tempo ha cercato di farsi assumere ma nulla da fare. Però Sean Bridges ha un’abilità, una skill, particolare: sa sostituire e modificare le componenti di un pc. E con queste credenziali s’è presentato a un colloquio con IBM nel 2013: assunto.
La sua è la storia di apertura di un ampio pezzo in cui il New York Times racconta proprio questo: l’ascesa dei new collar. Il fenomeno non è confinato alla sola IBM. Microsoft, per esempio, ha investito 25 milioni di dollari sul programma Skillful, lanciato dalla Markle Foundation e orientato, tramite corsi e workshop, a ripensare il lavoro partendo dall’assunto che le trasformazioni in corso hanno un impatto pari a quello del passaggio dall’economia agricola a quella industriale. Serviranno abilità per svolgere sia i nuovi mestieri che si creeranno, sia quelli di sempre, che cambieranno, e nemmeno poco. Per esempio la manifattura sarà sempre più intelligente, fondata cioè su ricerca e sviluppo, sul digitale, sulla Internet of Things. Skillful lavora sul trasferire ai lavoratori le competenze giuste per ambire a impieghi in questo settore.
Anche i grandi centri ricerca e le grandi organizzazioni mondiali che si occupano di economia e lavoro ritengono ormai che le skills siano sempre più decisive. “Senza un’azione urgente e calibrata, capace di gestire la transizione verso una forza lavoro munita di abilità, i governi dovranno fronteggiare una disoccupazione e una disuguaglianza crescenti, mentre le aziende vedranno assottigliarsi la base dei consumatori. La laurea è importante, a livello di istruzione e cultura, ma ciò che oggi i ragazzi imparano nelle università non è sufficiente per farli stare sul nuovo mercato del lavoro”, ha sostenuto qualche mese fa Klaus Schwab, fondatore e direttore del World Economic Forum di Davos, aggiungendo che le abilità più utili, nei prossimi anni, saranno quelle matematiche, informatiche, architettoniche e ingegneristiche.
“Il Futuro del lavoro” è stato il tema al centro del World Economic Forum di Davos del 2016, con la pubblicazione di un report centrato soprattutto sulle competenze legate alla Quarta rivoluzione industriale: intelligenza artificiale e machine-learning, robotica, nanotecnologie, stampa 3D, genetica e biotecnologie. Nel confronto tra le abilità (skill) più richieste nel 2015 e quelle del 2020 spiccano la sempre maggiore importanza di creatività, intelligenza emotiva e flessibilità cognitiva (queste ultime due competenze assenti nel 2015), mentre saranno sempre meno richieste le capacità di coordinare gli altri e di negoziazione, compiti che saranno progressivamente affidati alle macchine.
La “skills disruption” impatterà per il 42 sulle infrastrutture, per il 39 sulla mobilità, per il 35 sulla Information and Communication technology, per il 33 sui servizi professionali e per il 30 per cento sull’energia. Crescerà la domanda di specialisti in biochimica, nanotecnologie e robotica, di esperti in sistemi informativi geospaziali, di agenti di vendita specializzati con un know-how di tipo tecnologico e, nella finanza, di analisti di dati, esperti di sicurezza eprofessionisti di database e reti.
Sempre a Davos, un anno dopo, una ricerca presentata dalla multinazionale della consulenza Accenture, condotta su un campione di 10mila lavoratori di dieci paesi diversi, confermava che lo sviluppo di competenze come capacità di leadership, pensiero critico, creatività e intelligenza emotiva possono addirittura contrastare la riduzione dei posti di lavoro legata alla crescente automazione. Secondo la ricerca se si riuscisse a raddoppiare il ritmo con cui i lavoratori sviluppano queste competenze, la quota di posti di lavoro a rischio diminuirebbe dal 10% al 4% entro il 2025 negli USA, dal 9% al 6% in UK e dal 10% al 5% in Germania. Per farlo occorre accelerare il reskilling, riprogettare il lavoro secondo il potenziale umano e affrontare la carenza di competenze specifiche studiando soluzioni di lungo termine, come per esempio partnership tra pubblico e privato in grado di dare vita a specifici programmi di formazione.
Un’altra multinazionale delle risorse umane, Manpower Group, nel suo annuale Talent shortage, riporta che la percentuale di lavoratori che, attraverso un training specifico, vengono reimpiegati nella stessa azienda è più che raddoppiata in un anno, passando dal 20 al 50 per cento, ma il 40 per cento ha difficoltà a riempire il vuoto creato dalla domanda di nuove professionalità e competenze.
Molti mestieri tradizionali verranno esercitati secondo modalità nuove. Nella ricerca Jobs and Skills in 2030, la UK Commission for Employment and Skills, un gruppo di lavoro finanziato dal governo britannico, immagina che “nel settore sanitario il personale potrebbe assistere i pazienti in remoto, con strumenti per diagnosi e monitoraggio” o che, in quello delle costruzioni, “l’automazione richiederà nuove abilità per installare, mantenere e riparare le macchine, e gli ingegneri useranno modelli digitali per disegnare e realizzare fisicamente i loro progetti”.
Secondo David Deming la matematica sarà sempre più importante. Professore ad Harvard, Deming ritiene che sarà al primo posto nella gerarchia delle abilità. E per dimostrare la sua tesi ha raccolto dati storici arrivando alla conclusione che, già nel periodo 1980-2012, i lavori che si sono diffusi maggiormente sono proprio quelli basati su conoscenze matematiche. Nell’Unione Europea, per esempio, tra il 2000 e il 2011, l’occupazione è cresciuta particolarmente in quei settori che prevedono abilità STEM (scienza, tecnologica, ingegneria e matematica). L’aumento è stato pari al 34%, a fronte dell’8% medio riscontrato in tutta l’UE per tutte le professioni.
E le lingue? Conoscerne una bene, o più di una, fa ovviamente la differenza, a maggior ragione in un pianeta così globalizzato, con nuovi soggetti che si affacciano sulla scena economica e politica. Potrebbe pertanto convenire apprendere lingue diverse dalle solite, ha suggerito un po’ di tempo fa il Washington Post, indicando nell’hindi, nel bengalese, nell’urdu e nell’indonesiano gli idiomi alternativi che, nel business, cresceranno d’importanza nei prossimi anni. Oltre al cinese, ovviamente. Ma quest’ultima è una lingua talmente complessa, con tanti dialetti, difficile da leggere e scrivere, che probabilmente non oserà ancora per molto tempo sfidare lo status di “lingua del mondo” che l’inglese può vantare.