Prevedere i terremoti
Dal Giappone agli Stati Uniti, lo stato dell’arte nei sistemi di alerting su terremoti e tsunami
Dal Giappone agli Stati Uniti, lo stato dell’arte nei sistemi di alerting su terremoti e tsunami
Il Giappone vive costantemente nell’attesa del prossimo Big One, che a quanto afferma la comunità scientifica, sarà probabilmente più devastante di quello del 2011. Per questo il Giappone, come anche gli Stati Uniti, stanno sperimentando sistemi di alerting su terremoti e tsunami. Il governatore della California lo ha già annunciato per il 2018, mentre c’è chi studia per utilizzare gli smartphone come sensori.
A Greg Beroza, docente di Geofisica all’Università di Stanford, l’idea è venuta mentre faceva shopping in un negozio di elettronica, impugnando lo smartphone per usare Shazam e dare un nome al brano musicale che stava ascoltando: “Cool, voglio fare la stessa cosa con i terremoti”. Così, nel 2015, è nato FAST, acronimo di Fingerprint And Similarity Thresholding, un sistema per riconoscere e classificare i terremoti attraverso un algoritmo. L’idea, appunto, è la stessa di Shazam: in poche frazioni di secondo il sistema è in grado di isolare un tratto di onda sonora relativa a un terremoto e confrontarla con tutte le altre presenti nel database, anche se vecchie di molti anni. I terremoti che si verificano nell’area di una stessa faglia, infatti, mostrano un’onda sonora simile: grazie a FAST è così possibile mappare i terremoti e capire quali zone siano maggiormente a rischio e quale intensità ci si potrà aspettare.
Certo, non è ancora la risposta a una domanda antica: i terremoti si possono prevedere? Nel Novecento i progetti ipotizzati e falliti sono stati moltissimi. Oggi, anche grazie allo sviluppo dell’ Internet of Things (IOT), molti studiosi pensano che l’utopia potrebbe presto diventare realtà. L’ennesima illusione?
Giappone e Stati Uniti si guardano da una parte all’altra del Pacifico, l’area con il più alto rischio sismico della Terra. È nota come l’Anello di fuoco (“Ring of fire”): qui si verifica il 90%dei terremoti del pianeta. L’evento dell’11 marzo del 2011 di Sendai e del Tōhoku (8,9 gradi di magnitudo), che ha provocato uno tsunami, è stato il più devastante mai registrato in Giappone ed è ancora considerato l’evento più catastrofico dalla Seconda guerra mondiale, più terribile anche del terremoto di Kobe del 1995, soprattutto per i danni agli impianti nucleari di Fukushina Dai-chi. Le onde dello tsunami hanno raggiunto le coste del Giappone meno di un’ora dopo le prime scosse, ad altezze di oltre 10 metri inondando una superficie stimata di circa 561 chilometri quadrati. In circa nove ore e mezza ha attraversato il Pacifico ed è arrivato alla costa occidentale degli Stati Uniti dove ha causato pochi danni, mentre 22 ore dopo il terremoto iniziale, i resti dello tsunami si erano diffusi in tutto l’Oceano Pacifico. L’Ocse stimò i danni nell’ordine del 2 %del Pil del Giappone, probabilmente per difetto.
Il problema è che il prossimo terremoto sarà peggiore. Il Giappone vive nell’attesa di The Next Big Wave almeno dal 2013, da quando il governo giapponese ha detto per bocca del presidente Shinzo Abe - quello che forse non andava detto: che il prossimo sisma avverrà entro i prossimi 30 anni, sarà di intensità tra l’ottavo e il nono grado di magnitudo e colpirà la zona della fossa di Nankai, un’area sulla quale i terremoti si abbattono con tragica regolarità da molti secoli. “Ma la popolazione deve rimanere calma e avere paura in modo appropriato” ha aggiunto Abe.
I dettagli sono importanti: secondo il governo il Big Wave al 50%accadrà nei prossimi 20 anni, al 70% nei prossimi 30, al 90% nel prossimo mezzo secolo. E i danni? Si stimano 323mila vittime, di cui 230mila a causa dell’impatto dello tsunami, 82mila dal crollo degli edifici e 10mila per gli incendi. I danni, però, potrebbero essere incalcolabili se si considera che la regione potenzialmente colpita rappresenta uno dei centri industriali del paese. In quella zona ha sede la Fanuc, l’azienda leader nella produzione dei robot, ma anche uno stabilimento dove la Toyota produce 1,6 milioni di auto l’anno e la gran parte dei fornitori giapponesi della Boeing.
Il Big One che colpì il Giappone nel 2011, però, ha fatto scuola. In quell’occasione, grazie anche agli studi dell’Earthquake Research Institute dell’Università di Tokyo, si iniziò a sperimentare un sistema di migliaia di sensori elettronici piazzati lungo tutto il territorio del paese che possono inviare un alerting in pochi secondi. Il sistema è noto come EEW, acronimo di Earthquake Early Warning, è emesso dall’Agenzia meteorologica giapponese (JMA) e allerta sia il Servizio idrologico nazionale sia i cittadini.
Il sistema ha incuriosito anche gli Stati Uniti. Particolarmente sensibile al problema è la California, famosa per i devastanti terremoti causati dalla faglia di Sant'Andrea: si stima che nei prossimi 30 anni la baia di San Francisco e la California del Sud abbiano il 72%di possibilità di essere colpite da un terremoto di almeno 6-7 gradi di magnitudo. Lo scorso settembre il governatore della California Jerry Brown ha annunciato che, entro il 2018, i cittadini californiani potranno ricevere sui loro telefonini un alerting chiamato ShakeAlert. Come funziona? ShakeAlert è in grado di identificare e classificare un terremoto pochi secondi dopo l'inizio attraverso l’energia irradiata dalle cosiddette onde P, chiamate anche onde longitudinali, che si originano dall'ipocentro e si propagano attraverso le rocce per successive compressioni e dilatazioni delle rocce stesse, provocando variazioni di volume. Attraverso queste informazioni si può prevedere di avvertire la popolazione con alcune decine di secondi di anticipo (un numero che varia a seconda della distanza dall’epicentro) e di allertare infrastrutture potenzialmente critiche.
Grazie a sistemi come ShakeAlert si stima che a breve si potranno rallentare i treni o fermare gli aerei in fase di rullaggio, evitare alle auto di entrare in gallerie o di attraversare i ponti, di allontanarsi da macchine chimiche pericolose, di spegnere o isolare particolari impianti industriali. Le smart cities del futuro probabilmente prevederanno sistemi di alerting su terremoti e tsunami.
Il Gruppo Generali sostiene uno studio triennale sull’analisi e la mitigazione degli effetti del rischio sismico, in collaborazione con il Centro internazionale di fisica teorica Abdus Salam (ICTP), la prima e più importante istituzione scientifica a livello globale nell’ambito della ricerca e trasferimento delle conoscenze verso i paesi emergenti e in via di sviluppo, basata a Trieste e operativa sotto l’egida del governo Italiano, dell’IAEA e dell’Unesco. La ricerca, che sarà completata nel 2018, si concentrerà sullo sviluppo di un modello fisico ed esaminerà un insieme di faglie sismiche nella zona compresa tra il Friuli Venezia Giulia e l’Istria, nella parte settentrionale del Mare Adriatico. Il modello consentirà di analizzare con attenzione il comportamento delle faglie tramite dati e simulazioni di carattere geologico, sismologico e satellitare e sarà applicabile anche in altre aree del mondo esposte a rischio sismico, anche per sviluppare una cultura scientifica di prevenzione e mitigare le conseguenze sul territorio.
Non tutti i disastri naturali sono uguali. I tempi di reazione necessari per evitare danni sono di pochi secondi nel caso di un terremoto, di minuti nel caso di un tornado, di ore nel caso di un’alluvione, addirittura di giorni nel caso di incendi e uragani. E ancora, i terremoti - a differenza di uragani, incendi o tornado - non presentano segnali visibili che ne annuncino l’arrivo. Uno dei problemi maggiori con i sistemi di alerting è il falso allarme. Provate a immaginare le conseguenze di un avvertimento fasullo in una scuola, a un concerto rock, in un centro commerciale? In alcuni casi i rischi da reazioni di panico potrebbero essere peggiori delle conseguenze di un terremoto vero. Per questo la sperimentazione non è banale, i costi di realizzazione sono molto alti e i tempi per arrivare ad “anticipare” un terremoto saranno ancora lunghi. Non solo, molti paesi sismologicamente a rischio (Perù, Iran, Nepal) non si possono permettere gli investimenti in tecnologia che Giappone e Stati Uniti stanno realizzando.
Per superare tutti questi problemi un gruppo di studiosi capitanati da una geologa del Menlo Park Science Center (California), Sarah E. Minson, ha scritto un articolo su “Science” su una sperimentazione in corso che ha fatto molto discutere il settore. Il modello prevede l’utilizzo degli smartphone e un EEW in modalità crowdsourcing, cioè con una raccolta e uno scambio di informazioni automatiche dal basso, con interventi sui software e sull’hardware dei device mobili per adattarli a sensori. L’app Big One sarà presto un must.