Millennials disruption
La generazione che cambierà il mondo?
Per Jack Ma, il fondatore e presidente di Alibaba, colosso cinese dell’e-commerce, sono “i costruttori del domani”: persone dotate di grande vitalità, con una visione del mondo, con cui il miliardario cinese, in azienda, si confronta spesso. Di tutt’altro avviso Joel Stein, firma di Time: nel 2013, quando il settimanale dedicò la copertina ai Millennials, li liquidò come ossessionati dalla fama, narcisisti e maniaci di selfie.
Dei Millennials, la generazione di ragazzi nati tra il 1980 e il 2000, si parla molto, tutti i giorni. Non stupisce: capita spesso quando una generazione si affaccia sulla ribalta della storia e inizia a dare l’impressione di poterle dare un nuovo verso. Forse sui Millennials si concentra un’attenzione maggiore rispetto a quella a suo tempo riposta sulle generazioni precedenti. Hanno avuto in dote un mondo ipermoderno, scandito dal flusso di Internet, dai processi della globalizzazione, dalle novità tecnologiche che ne accorciano la superficie di contatto con quello di ieri. E quello di domani, come sarà? E i Millennials sapranno cambiarlo?
Non è facile trarre conclusioni ma quello che si può fare è mettere in ordine qualche numero, qualche studio. Registrare ciò che per certo si sa di questi ragazzi. Per esempio, la grandezza demografica. E già qui arriva una notizia. Negli Stati Uniti d’America, il Paese che sui Millennials ha raccolto più dati, questa generazione rappresenta il segmento più rappresentato a livello di popolazione complessiva. Secondo lo US Census Bureau, nel 2015 i cittadini compresi nella fascia di età 18-34 ammontavano a 83,1 milioni, contro i 75,4 milioni dei Baby Boomers, la generazione nata nel primo ventennio del dopoguerra, in un periodo di grande crescita e incredibile ottimismo.
Non è da meno un’ulteriore indicazione, conseguenza proprio dell’ascesa demografica: i Millennials rappresentano oggi in America la metà della forza lavoro. Su scala globale, ci si attende invece che la quota sarà di un terzo entro il 2020.
La questione lavoro va ben oltre il dato numerico nudo e crudo. Alcune ricerche, focalizzate sull’approccio al lavoro e alle ambizioni professionali dei Millennials, scardinano il luogo comune del ragazzo atipico, un po’ stralunato, un po’ viziato, voglioso prima di tutto di fare soldi. Deloitte, colosso mondiale della consulenza, per esempio, sul rapporto tra i Millennials e il lavoro ha svolto una ricerca ponderosa, fondata su una raccolta di dati durata tre anni. Ne emergono vari aspetti interessanti. Per esempio, meno della metà dei Millennials è condizionata dalla logica del profitto, quando sceglie di lavorare per un’azienda. Guarda più spesso all’obiettivo che quell’azienda vuole perseguire,
al modo in cui la sua azione può cambiare il mondo.
I Millennials, sul lavoro, chiedono molta più innovazione. E il fatto che non ce ne sia abbastanza è dovuta – a loro avviso – ai dirigenti che appartengono a generazioni precedenti alla loro, che frenano.
Il conflitto generazionale non manca mai.
Emerge poi il dato della flessibilità nell’organizzazione del lavoro, una colonna portante del modo di pensare, lavorare e vivere di questi ragazzi, che considerano centrale la qualità della vita. Lavorare seguendo di meno il rigore degli orari e le regole della vita d’ufficio significa, per loro, investire nel tempo libero, praticare attività fisica, dedicarsi ai propri interessi, come si legge in una ricerca di Goldman Sachs, evidenziando che i Millennials guardano con molta attenzione anche al consumo alimentare: lo vogliono sano, equilibrato.
E questo significa spingere il mercato verso una determinata direzione.
Lo stesso sta accadendo con la sharing economy. Avendo meno denaro a disposizione dei loro genitori, per via di minori possibilità di impiego e salari mediamente più bassi, i Millennials preferiscono non investire in beni quali casa e automobile. Non vogliono l’onere del possesso. Piuttosto, comprano servizi. E quando invece acquistano beni, lo fanno quasi sempre in Rete, decidendo se procedere o meno dopo aver dato un’occhiata ai siti che fanno recensioni e comparazioni.
Si possono aggiungere altri dati. Uno studio interessante effettuato da Merrill Edge, società di Bank of America Merrill Lynch che si occupa tra le altre cose di fondi pensione, indica che tra i Millennials la capacità di risparmio è superiore a quella delle precedenti generazioni. Mediamente, i Millennials riescono a “salvare” il 20% circa del loro stipendio, più della Generazione X (i nati negli anni ’70) e quella dei Baby Boomers, che ne riescono a mantenere circa il 15%. Ma in termini di obiettivi di utilizzo dei risparmi il piano si ribalta. Il 55% delle due generazioni precedenti risparmia per garantirsi la pensione, mentre tra i Millennials solo il 37% pensa a questo. Prevale la tendenza a investire nello stile di vita: viaggi, forma fisica, intrattenimento, cibo. Una mentalità da fear-of-missing-out, paura di perdersi qualcosa, così viene definita nel rapporto di Merrill Edge.
Da una ricerca del Boston College risulta che i Millennials, quando avranno la possibilità di investire i loro risparmi, cercheranno di avere, oltre a quello finanziario, anche un ritorno sociale, mettendo denaro in attività o fondi che abbiano un impatto positivo a livello ambientale e sociale. Il 79% del campione di intervistati si percepisce come “impact investor”. E questo può essere un segnale capace di indicare che in questa generazione, spesso dipinta come apatica e indifferente, abita in realtà una fortissima tensione civile.
Di più difficile lettura è la questione della tensione politica. I Millennials fanno più volontariato delle generazioni precedenti, credono che la trasparenza sia il più sacro dei principi dell’azione politica. Ma all’atto pratico risulta che i Millennials rinunciano a usare lo strumento più incisivo – il voto – che la democrazia assegna loro per indirizzare il corso della politica. Nel mondo occidentale per esempio l’affluenza alle urne, tra i giovani, è tendenzialmente bassa.
Non è facile capire se i Millennials cambieranno il mondo, in che misura, e se in meglio. Ed è doveroso segnalare che in questa generazione il tasso di ottimismo varia abbastanza, a seconda del posto e della cultura da cui si proviene (in America di più, in Europa meno). Quel che è certo è che questa generazione ha messo in moto una distruption su più fronti, o quanto meno la cavalca. E in fondo questo è già un cambiamento.