Big Data e vulnerabilità di Internet
Intervista a Luciano Floridi
LUCIANO FLORIDI, Professore Ordinario di Filosofia ed Etica dell’Informazione e Direttore del Digital Ethics Lab, Università di Oxford
Il 6 maggio The Economist è uscito con una copertina dedicata ai Big Data definiti “la risorsa di maggior valore al mondo” (“the world’s most valuable resource”). Secondo il settimanale britannico, però, l’enorme concentrazione di dati in poche mani (Google, Facebook) “cambia la natura della competizione”. Cosa ne pensa?
La competizione spesso si basa su regole opache: io non conosco la formula della Coca-Cola e non conosco l’algoritmo di Google. Questa opacità in generale è creativa: noi arriviamo con soluzioni diverse a migliorare il prodotto. È anche per questo che esiste una certa protezione nei confronti delle innovazioni: brevetti e copyright servono anche a questo.
Detto questo, è anche vero che tante più informazioni circolano nel mondo tanto più facile è che ci sia un vincitore solo. L’alternativa alla competizione non è la collaborazione, ma il monopolio: Google sul search, Facebook sui social, Apple sulla musica, e così via. La direzione verso la quale stiamo andando è di potenti monopoli. Certo, esistono decine di altri motori di ricerca, ma chi li usa? Quante più persone usano Google, tanto più Google migliora il suo prodotto: sono processi che si autoalimentano e automigliorano. In Europa oltre il 90% del search è su Google. Oggi i ragazzi sotto i 13 anni sono tentati a essere su Facebook perché i loro compagni di classe sono su Facebook. È il fenomeno del two sided network, già noto alle carte di credito: i clienti chiedono di pagare con carta di credito e più clienti lo chiedono, tanto più i negozi sono invogliati a disporre di questo tipo di pagamento, rendendo ancora più facile il pagamento. Il negozio che non si adegua resta tagliato fuori. Infine, oggi godiamo di una certa competizione sulle risorse pubblicitarie, ma se i grandi si mettessero d’accordo tra loro si dividerebbero il mondo. In sintesi, sono preoccupato, perché potrebbe andare peggio.
“The Economist” proponeva come rimedio una maggiore trasparenza e condivisione di dati.
Qui vorrei distinguere tra quello che probabilmente accadrà e quello che dovrebbe accadere. Non sarei sorpreso se questi Big semplicemente non accettassero di condividere i dati: Google e Facebook non vendono i nostri dati a nessuno, vendono a qualcuno la possibilità di fare pubblicità sui nostri profili, quindi sarei molto sorpreso se accettassero di condividere i dati. In futuro ci sarà più ridondanza, non più condivisione: il mio nome, cognome e indirizzo li avranno tutti, ma non perché sarà condiviso.
Le cose potrebbero e dovrebbero andare diversamente. Potremmo fermare l’escalation pubblicitaria, per cui le aziende sono costrette a investire sempre di più non nei prodotti, ma nella loro presentazione ai clienti, con la stessa logica per cui chi non investe abbastanza nella pubblicità è perdente. Il digitale sta di fatto tenendo l’analogico in ostaggio. Potremmo noi stare più attenti: sarebbe bello se facessimo più attenzione a quello che mettiamo online. Forse è tardi, la diga è saltata, è difficile che il mondo possa ricostruire quel senso di privacy che chiamerei anonimato, quando eravamo foglie in una foresta di milioni di foglie. Oggi la mappa del digitale è molto accurata, il singolo è profilato e monitorato in modo molto specifico. In fondo bastano pochi elementi per identificarmi: per esempio, io sono un italiano, professore ad Oxford, che fa quella strada tutti i giorni. Oggi noi siamo tutti individui, non c’è più la massa.
Per Big Data non intendiamo solo i dati di cui dispongono consapevolmente le persone (età, residenza, colore degli occhi, etc) ma molte altre informazioni che li riguardano, per esempio gli spostamenti con i mezzi di trasporto, le abitudini di spesa, i comportamenti online. Proprio in questa rubrica il Garante europeo della Privacy Giovanni Buttarelli ha detto che in futuro si parlerà sempre più di “cluster” e sempre meno di “dato personale”.
Buttarelli ha ragione: i dati diventano un po’ delle nuvole, dai confini sfumati. Il fisico Erwin Schrödinger diceva: “Non bisogna confondere un oggetto dai contorni sfumati con una cattiva fotografia di un oggetto dai contorni netti”. I Big Data scattano una fotografia molto precisa e dettagliata di un oggetto che di per sé è nebuloso, perché sono nebulosi i dati che condividiamo. Sui Big data si possono distinguere due approcci. Il primo colloca un individuo in un gruppo: per esempio Maria è nel gruppo delle persone che vanno in vacanza in montagna; se dopo 20 anni dovesse andare in vacanza al mare, il sistema continuerebbe a collocarla nel gruppo della montagna. Il secondo approccio è quello verso il quale stiamo andando: la gente trascorre sempre più tempo online, anzi “onlife” come piace dire a me, e quindi possiamo essere monitorati 24 ore al giorno. Appena Maria cambia gusti sulla vacanza, il sistema lo registra e si adegua.
Cosa manca ai Big Data per uscire dal recinto degli addetti ai lavori e far percepire a tutti i benefici pratici che se ne possono ricavare? Esistono già applicazioni concrete dei Big Data nel settore pubblico, per esempio nel welfare o nei trasporti?
L’uso migliorativo dei Big Data a livello sociale è una grande opportunità che abbiamo mancato nel nuovo secolo. L’Italia avrebbe una grande opportunità di fare il cosiddetto “salto della rana” (leapfrogging) evitando tutti gli errori fatti in passato sul digitale e arrivare a utilizzare i dati in modo intelligente, ad esempio sulla logistica, il welfare, la medicina. Ci vuole abilità politica e anche di comunicazione. Qui in Gran Bretagna, per esempio, due anni fa è stata venduta malissimo all’opinione pubblica l’unificazione delle banche-dati sanitarie, e la reazione popolare ha fatto saltare l’accordo, con costi spaventosi. La complessità che stiamo generando andrebbe gestita con i Big data: città come Roma e Milano non sono gestibili al meglio senza i Big Data.
Perché i Big Data in mano pubblica farebbero parlare tutti di Grande Fratello mentre in possesso di Google e Facebook ci preoccupano meno?
Il cittadino ha ragione a temere di più lo Stato: lo Stato è stato concepito per avere il monopolio sulla violenza. Nella storia dell’umanità i peggiori abusi sono stati commessi dallo Stato, non dalle aziende: è la storia del Novecento. Io e mia moglie abbiamo fatto l’analisi del DNA recentemente, anche per ragioni di coerenza scientifica e di curiosità, e li abbiamo consegnati a un’azienda privata molto vicina a Google, senza particolari preoccupazioni. A seconda dello Stato in questione, sarei un po’ più preoccupato. Qui in UK l’accordo sui dati con gli ospedali britannici firmato da Google DeepMind era ai limiti della copertura legale e il dibattito è ancora in corso. Sembra che solo queste grandi aziende abbiano la capacità di operare in modo così veloce, con una tempistica perfetta, con una disponibilità enorme di risorse, e con una governance molto più adatta alla velocità del momento in cui viviamo.
“Internet si è rotta” ha detto il fondatore di Twitter Evan Williams. La Rete è vulnerabile perché l’abbiamo creata aperta?
Sì, è così, l’abbiamo creata così. Ma che Internet sia la stessa in tutto il mondo è un mito, non è mai stato vero. Quello che accomuna i vari networks è che hanno questa proprietà: l’informazione è aperta e circolerebbe ovunque, bisogna fare uno sforzo per bloccarla. Già negli anni Novanta, quando negli Stati Uniti si parlava di Nuova Frontiera, si esagerava. Il mondo è fatto di esseri umani, Internet è vulnerabile, il crimine informatico sparirà quando non ne varrà più la pena. E poi il digitale è l’unica tecnologia che ha la proprietà di essere autoriflessiva, il digitale lavora sul digitale, migliora se stesso, quindi alzeremo delle difese sempre migliori. Già oggi è molto difficile fare qualcosa di assolutamente anonimo sulla Rete. La cosa grave della discussione sull’ultimo cyberattacco, quello di “Wanna Cry”, non è che qualcuno lo abbia messo in atto, ma che avessimo tutti gli strumenti per impedirlo (gli antivirus, gli aggiornamenti di sistema, eccetera) e migliaia di persone non abbiano fatto niente, nessuna manutenzione. Le colpe della Rete ricadranno sui suoi utenti perché la Rete siamo noi.