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La scienza dietro una partita di calcio
La scienza dietro una partita di calcio
Nel 2015 il Midtjylland FC, squadra danese di Herning, vinceva il primo titolo della sua storia. Evento indicativo soprattutto perché si trattava del primo titolo conquistato grazie alla matematica: con l’impiego cioè di algoritmi, statistiche e Big Data.
La sports analytics unisce da anni i dati raccolti sul campo – svariati indicatori per i diversi tipi di prestazione – con modelli scientifici di discipline come le scienze cognitive e l'economia, per aiutare atleti, allenatori, dirigenti e arbitri a migliorare il più possibile i propri risultati. È applicata già da tempo a molti sport americani – si pensi al libro di Michael Lewis Moneyball e all’omonimo film con Brad Pitt–, soprattutto al baseball, in cui le sabermetrics – le statistiche sul baseball messe a punto dalla Society for American Baseball Research (SABR) – sono tenute in grande considerazione da decenni. Per il calcio, però, le cose sembrano andare in maniera un po’ diversa.
“Nel calcio il metodo scientifico può dare una mano per costruire una serie di indicatori di performance che poi la squadra possa utilizzare per migliorare le proprie prestazioni in modo effettivo”, spiega Luciano Canova, professore di economia comportamentale alla Scuola Enrico Mattei, “però non è una scienza dei miracoli, perché il calcio è uno sport fluido, fatto di continui ribaltamenti che rendono molto difficile fare modelli previsionali, per esempio su come andranno a finire le partite”. Canova, insieme al filosofo Carlo Canepa, è autore de La scienza dei goal, un libro divulgativo che descrive il ruolo crescente dell’approccio quantitativo agli sport – in particolare al calcio – con l’ambizione di “collegare pezzi di letteratura che, fino ad adesso, hanno dato luogo a libri e a ricerche separati”. “I dati”, spiega Canova, “possono servire a sfatare molti luoghi comuni, per esempio la vulgata vuole che chi segni a ridosso della fine del primo tempo abbia una buona probabilità di vincere la partita perché dà uno scossone psicologico agli avversari. Questo è smentito dai dati”. C’è però un altro aspetto importante su cui il libro si focalizza: i campionati come laboratorio privilegiato di analisi per capire fatti e fenomeni che avvengono molto al di fuori del terreno di gioco. “Le regole, in questo sport, sono uguali per tutti e le prestazioni sono misurabili in modo più oggettivo che altrove: insomma, sono le condizioni perfette per uno studio sperimentale. Se per esempio voglio sapere quanto la disuguaglianza nel reddito impatti sulla produttività o se una società multiculturale è più coesa di una con una sola etnia dominante, cosa c’è di meglio che cercare dati prendendoli direttamente dalla Serie A?”
Gli sport in generale costituiscono un pozzo di dati da cui si possono attingere informazioni di vita vera. La statistica, dunque, serve per il gioco stesso, per migliorare le prestazioni e sfatare pregiudizi, ma anche per la società tutta: il financial fair play, per esempio, è stato studiato anche in relazione alle politiche di austerità. Ciò che non si può fare, invece, sono previsioni esatte sui risultati: “Ci sono troppi elementi che non possono essere controllati”, spiega Canova: come le condizioni climatiche, o il clima sociale – per l’Inghilterra ad esempio hooligans e Brexit hanno avuto un forte impatto –; così come non si può tenere in considerazione l’importante ruolo dell’allenatore”.
Non una scienza dei miracoli, dunque. E meno male che è così, “perché”, conclude Canova: “si tratta di uno sport – per me il più bello del mondo – e il bello dello sport è che avvengono cose strane e sorprendenti. Come l’Islanda che vince contro l’Inghilterra”.