La generazione che vuole un ambiente protetto
Tutto è ansia, visione messianica e futuro distopico. I 20-30enni si nutrono di “ecosofia”, un credo che li rende combattivi e pronti a cambiare il presente
Secondo un recente rapporto Deloitte Global GenZ and Millenial Survey 2024, in Italia, rispetto alla media mondiale il 68% della Generazione Z (62% media globale) e il 64% dei Millenial (59% media globale) si esprime in termini di ampia sensibilità nei confronti del cambiamento climatico. Più in generale, il dato complessivo tende a rinforzarsi, in termini di “preoccupazione”, se non proprio, di “ansia”. Non solo parole, tantomeno slogan, ma prassi concrete ed effettive: il 37% della Generazione Z e il 42% dei Millennial è attento a ridurre il proprio impatto ambientale, ad esempio, rinunciando al fast fashion, limitando i voli aerei, adottando una dieta vegetariana o vegana. Attorno ai trent’anni o poco più sono già informatissimi. Eco-friendly, dal punto di vista sociale, culturale, alimentare. Fortemente convinti, i più critici addirittura fissati, di doversi occupare di tematiche ambientali, transizione ecologica, cambiamento climatico e altre tematiche che, a livello internazionale, impegnano il dibattito dell’arena politica. In una Terra sempre più surriscaldata, media, governance, aziende, rappresentano un “blocco d’ordine” semantico, nei confronti dell’intensificarsi delle istanze e delle ondate di attivismo ambientalista, seppure con diverse gradazioni.
La strada delle idee brucia, al pari, dei tanti incendi che si susseguono, da alcune estati a questa parte, anche se le trentenni e i trentenni si mostrano, quasi unici, nel sollevare la grande “questione ambientale” dei prossimi decenni. Ragionando di temi significativi balza alla vista la presenza di una generazione (termine mai del tutto convincente) che sperimenta, giorno dopo giorno, un doppio livello d’ansia: tecnologica e ambientale. Si tratta di un tema sociologicamente in chiaroscuro, in relazione alle paure, ai conflitti e all’impegno, se non proprio, all’ossessione post-moderna di chi ha intorno ai trent’anni per le sorti del nostro pianeta. Nel pieno delle contraddizioni del woke capitalism, della socialità resiliente e sostenibile, a emergere è il nuovo continente giovanile, per così dire, senza vie d’uscita. Lungi da me buttarla sulla metafisica del costume giovanile, tuttavia la difesa dell’ambiente è ritornata a essere qualcosa di archetipico, ribadendo la sincronicità delle prassi sociali con i ritmi della natura. È ciò che il sociologo Michel Maffesoli ha definito “Ecosofia” (2018), come consapevolezza della natura delle cose, armonia originaria fra madre terra, comunità e individui, al contempo, riparazione, cura, tutela degli strappi e delle ferite del «prometeismo industriale e post-industriale», della tecnica mono-paradigmatica. Un tema che ha i propri presupposti nella riflessione su cultura e civilizzazione, così presente nel pensiero critico della scuola di Francoforte nel XX secolo, nel senso di cristallizzazione dell’esistente di quelle che Adorno nel sottotitolo di Minima Moralia ebbe a definire “le vite danneggiate”.
Al netto dello scialo di titoloni e delle bacchettate televisive su imbrattamenti dei monumenti, blocchi autostradali, attuati da «un’élite: bianchi, ricchi con genitori ricchi, pochi tra noi hanno il problema di fare la spesa e se in casa mia si rompe la lavatrice posso serenamente aggiustarla. Ma per questo lottiamo anche per chi non può lottare», come da recenti dichiarazioni di Marina Hagen, leader austriaca di Ultima Generazione a Il Corriere della Sera di venerdì 9 agosto 2024. A una lettura meno pigra, ci sarebbe l’occasione di fare i conti con una visione di chi non è più orientato a ciò che non riusciamo più a vedere. Chiamatelo particolare, inatteso incontro con la possibile fine del mondo. Monito più da visionari o anacoreti di ritorno della contemporaneità unita all’antica proiezione di ogni movimento sociale e culturale di rendere reali i propri sogni o le loro allucinazioni. Anche quelle più tragiche, contorte e disperate, spaccio diffuso della bestia totalitaria.
Essere/ sentirsi perennemente in ansia consente di produrre idee, non rimpannucciandosi mai nelle ideologie. Credere che siamo di fronte a una serie di errori catastrofici, in nome di un paradigma attivo che obbliga a uscire dal “gioco al ribasso” fra categorie e segmenti di società che s’annullano nel rimpiattino di un’elencazione stremata degli effetti. Meglio discutere di cause, al fine di ripercorrere la strada di una meta condivisa, senza, per forza, essere ruffiani, simpatetici e autoreferenziali. Fuor d’imbarazzo, favola della favola, oppure, parabola della fine, quasi fantascientifica, della società dei consumi in tutte le zone del pianeta, da San Paolo a Detroit, da Calcutta a Kuala Lampur. Passaggi teorici che accomunano le letture dell’immaginario di Slavoi Zizek e Alejandro Jodorowsky, più cuoca di Lenin che artista, abbiamo a che fare con una generazione che intende modulare e destrutturare l’immaginario, quasi fosse una tavola di Dürer.
“Tutto è ansia”: sorta di atmosfera sociale onnipervasiva, frutto di una precisa cultura che produce ansia, come profondamente investigato da Vincenzo Costa, docente di Fenomenologia alla Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele, nel suo recente saggio: “La società dell’ansia” (2024). Sempre più si vivono ore d’ansia.
Il “post-pandemia” è ormai noto che abbia dilatato a dismisura il perimetro dell’ansia. Di giorno, di notte abbiamo a che fare con l’ansia. Di più ogni fase della giornata produce e allinea ansie diverse. Stato molteplice, condizione comune, eterno morso allo stomaco che ci assale, profondo.
Attorno all’ansia si è andato edificando un vero e proprio immaginario, a tal punto che basta dirsi o dichiararsi ansiosi per fluidificare la conversazione sui social. Tra immediate solidarietà e acido stigma. Creando l’idem sentire, al tempo stesso, percependo un destino comune, una consonanza molteplice.
Così va il mondo e le cose nell’ “età dell’ansia”: fase matura della globalizzazione o nuovo tempo dell’impossibilità?
Più che risposte, enigmi. Lasciti complicati di un malessere diffuso, compatto, quasi prepotente. Fosse solo per la consegna di Amazon, oppure, per la recita di fine anno. Senza tregua. Si tratti d’Incel, “eco-ansiosi”, “neo” o “post-fragili”, “eterni precari”, lo stato ansioso è la drôle de guerre del tempo presente. L’impossibilità come destino si agglutina in ansia continua e totale. Realtà che supera l’immaginazione e diretta conseguenza della cronofagia, come consapevolezza di essere divorati da impegni, più o meno reali, necessari.
Ansia.
Parola trasversale, onnipresente. Se non provi ansia, non sei nessuno. Estremizzo volutamente. Dato l’argomento: stresso il concetto. Resta innegabile, tuttavia, che lo stato d’animo che caratterizza la contemporaneità sia l’ansia. I cantieri e i limiti di velocità, il lavoro, lo studio, l’ambiente, la scuola, gli affetti, le promesse, le premesse, ognuna a modo loro, generano ansia. Piccola o grande che sia vivere la società ansiosa pare essere un destino ineluttabile. La piega degli eventi che si dipana in un preciso stato d’animo. Anche e solo per aspettare un corriere mobilitiamo un condominio, il negozio di prossimità, se ancora aperto, un bar nelle vicinanze. Non è apologo minimo, bensì la constatazione di uno stato e moto perpetuo. Senza accordi preliminari, tantomeno verità bastevole. Proiettare attese senza saperle più reggere, poiché troppe, sempre di più. A non dire che, a parere dello psicologo sociale Jonathan Haidt, viviamo una fase di piena maturazione, come da titolo di un suo recente saggio, di una vera e propria Anxious Generation: how the great rewiring of childood is causing an epidemic of mental illness. Secondo Haidt, sempre prima, presto, prestissimo l’ansia ci attenderebbe a braccia aperte. Più precisamente a portata di smartphone. Non è che il tempo sia sindacalizzato abbastanza per risparmiarci un po’ d’ansia, a tal punto, da sentirsi impreparati al benché minimo cambiamento di programma, al più che naturale cambiamento delle cose. Non siamo pronti. Non ci sentiamo preparati. In un tempo di profonda solitudine, per quanto ostentiamo brillantezza e protagonismo sui social. Una sorta di spleen ininterrotto dentro il sovraccarico informativo e comunicativo, le spunte blu, i cicalini, i vocali conclamati, gli avvisi di raccomandata, la crono-compressione vertiginosa. Ansia da flussi d’informazione che agiscono ventiquattrore su ventiquattro. La società digitale pretende uno stato di coscienza immersivo, dove non esiste più distacco o contemplazione. Frenesia, cioè assenza di stasi che si traduce in una performance sociale continua, dettata da tempi macchinici, tecnologici.
La società digitale pretende uno stato di coscienza immersivo, dove non esiste più distacco né contemplazione, ma solo frenesia che si traduce in una performance sociale continua, dettata da tempi tecnologici
Finito e indefinito si saldano nel nuovo «ecosistema ansiogeno» dilatando la percezione sensoriale di un diffuso senso di stanchezza unito ad un rimontante mal di vivere. Qualsivoglia ambito o situazione instilla ansia, al di là, degli aspetti anche positivi rappresentati dall’ansia di crescere, migliorarsi, sperimentarsi in nuovi campi. A dirla tutta, l’altra declinazione dell’ansia risulta essere negletta, rimossa. Prevale, in vario modo, un mood che, forse, per la prima volta dichiariamo apertamente, non so quanto consapevolmente, ma a differenza del comportamento elettorale, dei gusti sessuali, del credo valoriale non riteniamo di ostacolo alcuno il dichiararsi, o più semplicemente ammettere di provare ansia. Tranquilli: non cederò alla tentazione di disquisire sulle cause strutturali del fenomeno.
Mi pare che l’ansia, prima di tutto, sorga dalla consapevolezza dell’ineluttabilità di certi processi. Forma di spaesamento continuo, senza traguardare una soluzione futura. Un rilancio reiterato a carte scoperte, di fronte a troppe novità, in mancanza d’inedito. S’avanza un quinto stato, psichico e allo stesso tempo, sociale: «gli eternamente ansiosi». Che le paure, i dubbi siano più o meno fondati, reali non è dato sapere. L’ansia è uno dei grandi collanti contemporanei. Un tema. Un dilemma. Declinandosi a impronta metaforica che più degrada relazionalmente e più incrementa il surplus del diversivo e della distrazione, nel frattempo, simile allo stordimento. Abbandonata la sorpresa esistenziale e antropologica che ogni atto sociale dovrebbe garantire, infine, incede una percezione all’incontrario che, talvolta distorce, talaltra confonde. L’ansia coincide con la vita quotidiana.
Dappertutto, un conto alla rovescia cui lavorano alacremente la carta stampata, i social, le televisioni, le dotte disquisizioni intellettuali, le recite cantate dei talk-show, le serie televisive, i film, i reportage alla moda. Per la prima volta, l’immaginazione sociale non ha a che fare col futuro, tantomeno, si raffigura come memento mori, per non sfigurare in società. Essere ansiosi non è più prerogativa dell’affrontare la vita, ma riconversione drastica della cultura familiare, professionale, di genere. Una certa idea d’ambiente e non di colorazione politica è offerta proprio da chi testimonia la ragionevole conoscenza dell’ambiente. Una postura metaforica che tenta di allontanarsi dallo spirito di competizione, di sfida e di corsa al primato energetico, però, oltre profetismi nichilisti e pessimismi della ragion civile e pratica, del “professionismo dell’apocalisse” prossima ventura. Operare sensibilmente sui valori, allora, con buona pace del fondamentalismo dei principi e delle virtù, a partire dalle “cose del creato”, centrando l’attenzione e l’ascolto, in quanto compatibili con un clima sociale, fiducioso che l’ambiente divenga un volano dell’economia della conoscenza. Il Novecento ha già conosciuto sprazzi arcadici e romantici, assieme alla drastica metamorfosi tecnologica. Il tempo sociale sospeso fra natura e cultura, affiancato dalla sostanza materica, delle cose e degli oggetti che utilizziamo. Molto spesso, rischiamo di non renderci conto del mutamento di strutture mentali e delle immediate conseguenze sui nostri comportamenti, atteggiamenti, fino alla stessa vita culturale.
In tutta probabilità, quel che chiedono, o, dovrebbero pretendere dalla politica è non confinare la natura complessa del dibattito, alla elencazione stremata degli effetti e, mai e poi mai, alla discussione sulle cause. Una politica efficace sa che di energia avremo sempre bisogno, per fare, creare e sapere, non tanto per conoscere la realtà, quanto per renderla più plastica, tenendosi lontani, allora, da un atteggiamento che radicalizza i temi, per, poi, banalizzarli.
Nella vita, la responsabilità della persone verso l’ambiente globale deve unire schemi immaginativi e culturali a quelli della vigilanza e salvaguardia, ripristino dell’ecosistema. Una generazione in chiaroscuro che punta molto in alto, cioè all’universo.
Che riesca o meno rappresenterà uno snodo essenziale del domani.
Ivo Stefano Germano
Professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università del Molise, insegna Teoria e tecniche dei nuovi media e comunicazione pubblica e sociale. È autore di saggi sulla cultura pop italiana.