Protetti dalla rete di famiglie estese

La parola chiave è net, reticoli. Ognuno costruirà i propri come rifugi. L’addio al nucleo tradizionale si intreccia con l’aumento dell’aspettativa di vita e con l’individualismo. Ma qualcosa bisognerà imparare a barattare, usando l’unica moneta possibile: la fiducia

Rossana Campisi
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Credit: ZACH REINER / UNSPLASH

La fine della famiglia tradizionale come comfort zone fatta di convivialità e lessico familiare.

Tra Lessico famigliare di Natalia Ginzburg (il romanzo che nel 1963 vinse il Premio Strega ed è stato poi tradotto pure in coreano) e La portalettere di Francesca Giannone (una saga familiare diventata il libro più venduto del 2023) sono passati sessant’anni. Ma soprattut­to sono successe tre cose. Abbiamo registrato il massimo storico della natalità nel 1963 e ab­biamo toccato anche il suo minimo nel 2023 (siamo scesi sotto i 59 milioni per la prima volta). Nel frattempo, abbiamo anche creato nuove famiglie. Il racconto della Ginzburg, così pieno di storie di zii, fratelli, cugini e ami­ci di famiglia, fa parte di noi ma è solo la nostra comfort zone, intima e radicata. Per il resto, è tutto cambiato fuori: la nostra storia è meno collettiva, le saghe come quella della Giannone ci piacciono, ma da leggere più che da riflet­tervi sopra. Nella vita quotidiana pratichiamo l’individualismo come fosse l’unica legge inte­riore e se c’è un’epica a cui lavoriamo è quella personale. Siamo gli unici eroi, o forse gli unici protagonisti: ecco la verità.

Siamo la baby boomer che al party per i suoi settant’anni ha comunicato a figli e nipoti il suo divorzio dal marito. Siamo la nonna che sta spesso al telefono per le call di lavoro: la legge Fornero manda in pensione le donne non pri­ma dei 67 anni e in fondo ad alcune di loro sta bene così («amo il mio lavoro», dicono). Siamo la comitiva variegata di millennial dove c’è chi ha divorziato in sei mesi (grazie alla legge sul di­vorzio breve del 2023), chi ha svenduto la villa familiare in Sicilia per comprare un monolocale nella periferia di Milano e tenersi i genitori an­ziani vicini, e chi ha messo in affitto la sua casa a Torino per tornare invece a Napoli, la città dove ha parenti e amici, e dove vivrà tra smart working e biglietti aereo per gli uffici torinesi. Siamo quelli che scrivono libri meravigliosi con trame che, vedi caso, si aggirano sempre intor­no ai rapporti con il padre, la madre.

La mappa della famiglia allargata è un mosaico di rapporti tra ex e nuovi partner con figli, parenti vecchi e nuovi, lavori flessibili e anziani in call. Per questo aumenta il social housing

Credit: ALEXANDER DUMMER / UNSPLASH

Famiglie monogenitoriali, monoreddito, pochi figli. Unica prospettiva contro il rischio isolamento: il social housing.


O con gli ex, le persone da cui ci separiamo improvvi­sando un’educazione sentimentale necessaria che nessuno però ci ha mai impartito finora. Da Invernale di Dario Voltolini a Il fuoco che ti porti dentro di Antonio Franchini fino a I dieci passi dell’addio di Luigi Nacci. Siamo anche altro, in­fine: siamo portatori di un’eredità intellettuale che suona come uno slogan. “La famiglia sono le persone che ti scegli”, ci ha ricordato Michela Murgia prima di andarsene. Ci scegliamo i pa­renti non perché oggi siamo spesso figli unici, single o separati, ma perché abbiamo prima di tutto realizzato una verità: tutto cambia. Ovve­ro: il cambiamento a cui siamo esposti è la pro­va che siamo vivi, e l’indissolubilità delle cose nate per dissolversi è ormai scaduta.

Abbiamo insomma famiglie che restano le nostre radi­ci, certo, perché siamo italiani e siamo anche la terra del “familismo amorale”, quella dove l’interesse della propria famiglia viene prima di quello della collettività. Ma sono radici che nessun perbenismo né felicità ipocrita e fin­to-borghese riescono a nascondere, sono radici esposte all’aria dei mutamenti sociali. Vulnera­bili, cangianti. Sono simili alle radici penzolanti di un ficus a Palermo. Vistose e visibili, appese dietro ai rami che in fondo sono i figli da segui­re se cambiano città, i nipoti da accudire. O i nuovi partner da sposare per la seconda volta visto che, come diceva Murgia, quel “prometto di non lasciarti mai” è la promessa più crudele, arrogante e disumana che si possa fare.

Le conferme sono i divorzi che aumentano (anche quelli tardivi, over 65), come le seconde nozze, le famiglie allargate e i progetti all’inse­gna del social housing: vivere insieme anche tra amici - ovvero tra i parenti che ci scegliamo - è una realtà finalmente anche nazionale. E così: mentre la famiglia nucleare (mamma, papà, prole) affida a una videochiamata i rapporti con quella estesa (nonni, zii e cugini), nel frattempo ne nasce un’altra molto allargata (parenti vecchi a cui si aggiungono i nuovi partner degli ex) o molto striminzita (genitori single per scelta o separati). A volte è una coppia che resta senza bambini, e accade sempre di più.

Entro il 2042, dice l’Istat, solo una fami­glia su quattro sarà composta da una coppia con figli. Più di una su cinque non ne avrà e il 37,5% sarà persino composto da una persona sola. Ma famiglia non era la parola usata per un gruppo di almeno due persone? No, quelle composte da persone che vivono da sole sono sempre esistite ma se in passato riguardava solo giovani uomini che lasciavano la fami­glia per motivi di lavoro, da tempo ormai le micro-famiglie sono quelle degli anziani che vivono da soli. Dietro ci sono ormai fenomeni consolidati - ovvero l’aumento della speranza di vita e quello dell’instabilità coniugale - e l’aumento dei dati è una previsione realistica. Se la quota di persone sole di 65 anni e oltre, rappresenta oggi circa la metà di chi vive da solo, nel 2042 raggiungerà quasi il 60%. Ci sa­ranno più uomini soli (+13%) ma soprattutto donne (+21%).

I numeri sono quelli che sono ma poi ognuno pensa a ciò che vuole: e io pen­so alle due parole chiave degli aperitivi con le mie amiche. Invecchiare insieme. Casa grande, giardinetto. Addormentarsi tutti alle 21 davanti ad Affari tuoi su tre divani, cucinare e pulire con i turni delle case degli universitari. Aiutar­si, soprattutto. Burocrazie, ritiro in lavanderia, sopravvivere a malanni e tristezze della terza e quarta età. Nelle nostre previsioni ci vediamo solo donne, e non credo dipenda dal fatto che gli uomini vivano meno a lungo. Forse perché la parola solidarietà è un sostantivo femminile e la lingua ci azzecca sempre. Il senior cohou­sing in ogni caso è un fenomeno nato in Da­nimarca negli anni Sessanta su iniziativa di un architetto e oggi in costante aumento: a Bari quattro sessantenni lo hanno già sperimenta­to, in Francia e in Inghilterra rappresenta il 68% degli investimenti nel settore (in Italia se ne contano una trentina e due terzi sono frutto di iniziative private).

Godersi la pensione, sì ma come? Aumentano i divorzi tra gli over 65, si va a svernare a Londra dai figli, si aprono srl.

Questo è lo scenario e sotto c’è tanto altro: c’è la globalizzazione culturale che unisce i continenti più lontani resettando valori e isti­tuzioni. Mark Regnerus, docente di Sociologia presso l’Università del Texas (USA) e presidente dell’Istituto di Austin per lo Studio della Fami­glia e della Cultura, parla di matrimonio come meta e non più come base di partenza nella so­cietà occidentale: nessuno si sposa più con po­chi soldi e un lavoro precario per costruire, da quel momento, una famiglia e una ricchezza. Tutti arrivano sull’altare con un buon lavoro e molte ambizioni conquistate. Accade in Ameri­ca come nell’Europa occidentale. La mentalità del matrimonio come “finitura” è diventata un prodotto di esportazione occidentale insom­ma. Da Istanbul a Lagos passando per Varsa­via, i giovani confermano quel che anni fa papa Francesco aveva dichiarato: c’è in corso una colonizzazione ideologica, le aspettative ma­teriali sono aumentate in un mondo in rapida globalizzazione, in cui i media mostrano pron­tamente come vivono gli altri. Per cui, in alcu­ni luoghi, standard di vita irragionevolmente elevati vengono adattati allo stile di vita locale, come fossero prodotti di esportazione occiden­tale: la vita coniugale è diventata altro, ovun­que. Non solo. Accanto a questa realtà, quella delle leggi che premiano la natalità con assegni mensili poco fanno: le donne fanno figli se vi­vono in contesti dove, nonostante i limiti eco­nomici e non solo, le altre donne fanno figli. Conta l’esempio che assorbi in modo indiretto, insomma. Conta il contesto culturale. Anche in Giappone. La popolazione mondiale valorizza in sostanza il vincolo coniugale perché le don­ne, per natura, capiscono che la stabilità è la cosa migliore per i figli. Ma non per altro: la conferma è che oggi possiamo fare una ricer­ca vasta e rapida per trovare dei compagni, le possibilità di relazione sono ben più numerose ma non sembra che tutto ciò contribuisca a un aumento del numero di matrimoni. Quanto alla natalità, i record negativi si aggiornano di anno in anno dal 2008: nella crisi demografica senza fine del Giappone, il numero di bambini nati è sceso per l’ottavo anno consecutivo nel 2023, raggiungendo un nuovo minimo storico. Significa che fino al 42% delle donne nate nel 2005 non avrà mai figli. Mentre Tokyo registra il numero medio di figli più basso delle 47 pre­fetture (0,99 per donna), il governo ha lanciato un app di dating contro il declino demografico del Paese. Si chiama “Tokyo Futari Story” e fa parte di un piano per la natalità più ampio del governo del valore di 500 milioni di yen.

Tutto ciò significa che nel prossimo futuro la dimen­sione complessiva dei nuclei familiari dovreb­be diminuire in modo permanente a livello in­ternazionale. Se nel 1950 una donna di 65 anni aveva 41 parenti in vita, entro il 2095 una don­na della stessa età ne avrà solo 25: sono questi i risultati dello studio coordinato dall’Istituto tedesco Max Planck per la ricerca demografica (Mpidr), pubblicato sulla rivista dell’Accade­mia americana delle scienze. La riduzione più drastica è attesa in Sud America e nei Caraibi: in queste regioni una donna media di 65 anni nel 1950 aveva 56 parenti in vita, mentre nel 2095 una donna della stessa età ne conterà appena 18,3, con un calo del 67%. Nel Nord America e in Europa, dove le famiglie sono già relativamente piccole, i cambiamenti saranno meno pronunciati: si passerà da una media di 25 parenti nel 1950 ai 15,9 del 2095.

In tutto ciò, l’aumento delle famiglie mono­genitoriali corre parallelo ed è sotto gli occhi di tutti: secondo una ricerca del Pew Research Center che la sede a Washington, gli Stati Uni­ti sono il paese che ha il maggior numero di monogenitori (il 23% sul totale delle famiglie). Il che significa che quasi un quarto dei ragazzi statunitensi di età inferiore ai 18 anni vive in una famiglia con un solo genitore. Il secondo Paese è la Gran Bretagna (19%), seguito da Sao Tome e Principe, Russia e Danimarca. L’unico paese africano nel sondaggio con oltre il 15% dei bambini che vivono con genitori single è il Kenya. Va ricordato che in questi dati non ri­entrano le famiglie in cui il genitore solo vive con i propri figli e con altre persone (parenti o amici), e questo ci fa subito pensare che se così fosse i numeri sarebbero ben più alti.

Credit: ELENA RABKINA / UNSPLASH

Ursula von der Leyen. La Presidente della Commissione europea ha parlato della necessità di una difesa comune nell’Unione.


In ogni caso ci aspetta un mondo popolato sempre più da persone sole: suona come una ri­voluzione futura, in realtà è già un po’ il nostro tempo. Vedovi, single, donne che scongelano gli ovociti conservati nelle banche e decidono di diventare madri senza un partner, famiglie monogenitoriali (che da 2,7 milioni supereran­no in vent’anni 3 milioni). Quel che conta però è che tutti sceglieremo di contare su una rete monca, imperfetta, ma in evoluzione: sarà la fa­miglia che vorremo, in evoluzione. E sarà quel­la che ci proteggerà perché stiamo imparando a coltivarla ogni giorno. Quando partiamo e cam­biamo vita, quando ci sradichiamo e rinascia­mo altrove mantenendo però una rete fitta di punti di riferimento.

Stefania, Lucia, Mariate­resa, Titti, Chiara: questi sono i nomi di quella famiglia che io sto coltivando mentre vedo orde di genitori dei miei amici mollare i loro 200 mq di case al Sud - piene di sogni e nipoti mai tran­sitati dentro - e trasferirsi dentro nuovi 38 mq della periferia di una città lontana, quella di fi­gli e nipoti. Sono i “ricongiungimenti” dei non­ni “expat” e sono tutte storie che nascondono due grandi buchi della nostra società. Ovvero: il supporto alle giovani coppie con bambini e il sostegno agli anziani, che non hanno luo­ghi di aggregazione e passano intere giornate in solitudine. E se in favore del primo ci sono tanti dati peggiorati con la crisi economica post pandemia (oggi un nonno su due sostiene eco­nomicamente figli e nipoti: è lui il pilastro del welfare “informale”), in favore del secondo se ne parla poco. «È successa una cosa nuova», precisa Stefano Poli, sociologo dell’Università di Genova e autore di Gli anziani che verranno (FrancoAngeli). «Il fatto che i genitori si sposta­no rientra in un discorso di welfare culturale tipicamente italiano e di stampo familistico. Le due generazioni stavolta però si riuniscono per risolvere i problemi legati alla crescita della ter­za. Ovvero mentre prima si partiva solo per ri­cevere delle cure dai familiari oggi si parte per aiutare anche i figli».

L’aumento inarrestabile dei pensionati tra­sferiti all’estero è in corso dal 2008. Ogni anno ne partono 4100, un terzo è rappresentato dai lavoratori stranieri, meno di un terzo è rap­presentato da chi sceglie paesi come Svizzera e Germania per raggiungere i figli, e dell’altro abbondante terzo invece fanno parte quelli che vanno in Spagna, Portogallo e paesi del Nord Africa per via delle agevolazioni particolari in termini di tassazione, oltre che per il clima. C’è migrazione e migrazione, certo: il babyboomer che resta in Italia non vive tanti traumi quanti quelli che toccano a chi si trasferisce all’estero e perde i vantaggi della residenza italiana (come quelli sanitari). «La novità in ogni caso è que­sta», continua Poli. «Se l’unità di misura oggi è l’individuo, è pur vero che come individui non abbiamo perso i vincoli e gli obblighi con l’an­ziano. Una donna separata con figli torna sem­pre a casa dei genitori, del resto. E viceversa. Cioè la famiglia così tanto bersagliata resta il baluardo che ci protegge. E così, da una parte abbiamo il welfare che perde risorse e dall’altra la famiglia che si disperde in microunità. Chi va a mangiare dai nonni la domenica per ritro­varsi coi cugini come si faceva un tempo? Po­chissimi. Eppure la tutela della famiglia per me resta l’unica soluzione finché non troveremo un’alternativa. Magari una famiglia allargata al vicinato. Chissà. Quel che conta è che serve ri­pensarla, e con urgenza», conclude.

Ecco il “vicinato” allora: una rete che antici­perebbe quella, attivabile in pensione, del so­cial housing. La casalinga del primo piano che diventa la tata del lunedì pomeriggio, il pen­sionato dell’ultimo che aggiusta la caldaia e re­sta poi a cena perché è vedovo e simpatico. E le nonne? Alcune continueranno a supportare full time la giovane famiglia del figlio, schiac­ciata tra costi della vita e servizi insufficienti, altre lo faranno part time o a richiesta perché sono diventate le baby boomers apripista di una nuova “tendenza grandpa” dove i rapporti con le generazioni più giovani sono inediti. Di qualità, e non solo per necessità.

Vogliamo essere liberi di sceglierci i parenti ma anche il tempo: quello per noi, per il lavoro, per i nipoti, quello per la vita che, per fortuna, si è allungata.

Il quadro è questo: siamo il paese in cui la partecipazione al mercato del lavoro degli over 55 cresce senza sosta, la povertà assoluta per questa fascia di età si è dimezzata in meno di vent’anni e il primato del numero di over 65 in UE (23,5%) resta invariato. Oltre la metà ha nipoti che vede con frequenza settimanale ma a prendersi cura di loro, quando entram­bi i genitori lavorano, è il 60,4% (Istat). E sarà sempre meno. E non perché certe leggi, come quella Fornero, obbligano le donne a restare a lavorare. «Una donna dopo una vita di la­voro ha il diritto di scegliere come gestire le proprie giornate o no?», precisa Silvia Veget­ti Finzi, psico-pedagogista, tre nipoti e un’età per cui potrebbe non lavorare più. «Io lavoro dalla mattina alla sera perché mi sento viva. Il mio riposo è fare ciò che mi piace. Oltretutto mi sembra di avere ancora qualcosa da dire e non voglio rinunciarci. La nipote più piccola ha dodici anni e sono a disposizione se serve, certo, ma sono anche per un ruolo dei non­ni più attivo, ovvero per il diritto di aiutare nell’organizzazione familiare i figli secondo le nostre disponibilità e assecondando anche il nostro diritto di dire no. Che i nipoti poi stiano sempre bene e soltanto con i nonni è pura re­torica», aggiunge Vegetti Finzi, autrice di Nuovi nonni per nuovi nipoti. La gioia di un incontro (Mondadori). «Detto ciò, se lavorare fino a 67 anni come vorrebbe la Fornero può insomma aiutare a essere meno ricattabili dai figli nella gestione “obbligatoria” dei nipoti, ben venga. Ma se qualcuna desiderasse non lavorare do­vrebbe avere comunque il diritto di mollare pri­ma perché le energie sono comunque diverse», conclude. Vogliamo essere liberi di sceglierci i parenti ma anche il tempo in buona sostanza: quello per noi, quello per i nipoti, quello per il lavoro fino a quando vogliamo noi. Quello per la vita che, per fortuna, si è allungata.

È  una storia di smarginatura, potremmo concludere. I margini delle storie familiari si assottigliano, si dissolvono, accolgono nuove sagome di amici, vicini, nipoti fluidi, genitori che svernano dai figli a Londra e tornano nel paesello in estate. La parola chiave semmai è net: la rete. Ognuno costruirà la propria - di città in città - e lì dentro si sentirà protetto. Nel frattempo, servirà imparare a barattare sempre meglio un po’ di individualismo con la fiducia verso gli altri. Chiamatela solidarietà. Mettetevi a pensare ad altre parole, se volete. Un nuovo lessico familiare del resto ci serve, o forse lo abbiamo già.

 

Rossana Campisi
Siciliana e milanese di adozione è una giornalista di lungo corso esperta in tematiche di work-life balance femminile. Ha scritto Partorirai con dolore (Rizzoli) sul tema della gravidanza nel sistema sanitario italiano.