La leadership si è evoluta. I leader non altrettanto

Il percorso verso una catena di comando che adotti empatia, senso di protezione e autenticità è iniziato, ma il modello del capo dominante è ancora troppo forte, anche tra i dipendenti. E questo rappresenta un rischio, in primis per le aziende

Lydia Romano Dishman
Tempo di lettura: 4'15"
Credit: ALESSANDRO GAROFALO / AP PHOTO


L'evoluzione della leadership negli ultimi dieci anni riflette uno slancio verso una mag­giore adattabilità, innovazione e collaborazione. Tuttavia, il persistente deficit di intelligenza emotiva e di soft skills come empatia, autenticità e traspa­renza evidenzia un’area critica che necessita di crescita e di un approccio equilibrato.

«Sono frustrata», mi ha confessato un’amica, una giovane donna che lavora in un’azienda vecchio stile.

La venticinquenne si è laureata da poco e vo­leva intraprendere una carriera creativa. L’affit­to e le altre spese di sostentamento a New York City le imponevano di trovare rapidamente un lavoro. Così ha trovato lavoro come responsabi­le operativa in un’organizzazione con oltre 200 dipendenti.

La buona notizia era che il ruolo non com­portava troppe difficoltà. Il lavoro amministra­tivo di base non richiedeva grandi competenze tecniche. La cattiva notizia: il direttore (il suo diretto supervisore) non era un buon leader. La comunicazione era discontinua e talvolta osti­le. Le responsabilità non erano chiaramente definite. Il riconoscimento era inesistente. «Sto cercando un altro lavoro», mi ha detto «ma è un’impresa». Tuttavia, ha deciso di non demor­dere e di sopportare lo stress quotidiano di do­ver interagire con un leader che eccelle nel suo lavoro, ma che non riesce a ispirare il personale a dare il meglio di sé.

Nella smania di sfruttare l’IA generativa, i leader dimenticano che conta di più l’umiltà del sapere di non avere risposte. E che queste devono essere individuate in modo collaborativo

Questa lavoratrice all’inizio della propria car­riera non è sola. Un’indagine condotta da Cultu­re Amp ha rilevato che, negli ultimi due anni, si è registrato un calo globale della fiducia dei lavora­tori nei confronti dei leader di livello superiore e il 44% dei lavoratori a livello globale sta pensan­do di cercare lavoro altrove. «I dipendenti riferi­ scono che i leader sono meno propensi a eviden­ziare l’importanza delle persone per il successo dell’azienda, sono meno capaci o disposti a te­nere le persone formate e faticano a trasmettere una visione motivante», secondo l’analisi dei dati pubblicata sul Times da Lynda Gratton, docente di management alla London Business School.

Questo è in contrasto con ciò che i lavorato­ri più giovani dicono di desiderare. Uno studio della Regent University segnala una tendenza più ampia: il desiderio di avere leader emotiva­mente intelligenti. «I leader devono dare priori­tà alle esigenze del proprio team e operare con trasparenza e coerenza nella comunicazione. I leader devono agire adottando un’autentica mentalità di “guida attraverso l’esempio”, che consente di ottenere un’effettiva adesione e co­struzione della lealtà nel processo».

Continuare a dipendere da un leader che non dedica attenzione e tempo a mostrare le soft skills che i lavoratori dicono di desiderare è do­vuto in parte a un mercato del lavoro sempre più ristretto, con licenziamenti che interessano quasi tutti i settori, e all’onere finanziario de­rivante dall’aumento dei prezzi dell’energia e dei generi alimentari. Secondo le stime, l’anno scorso il tasso di inflazione globale ha sfiorato il 7%, l’aumento più consistente dal 1996.

I leader che avevamo

Un decennio fa, questo non sarebbe stato un problema. I lavoratori più anziani erano abitua­ti a un approccio dall’alto verso il basso, in cui le direttive arrivavano dalle alte sfere della di­rigenza ai ranghi inferiori. La leadership di co­mando e controllo era la norma, con leader che enfatizzavano la propria autorità, la risolutezza e l’efficienza operativa.

Per alcuni leader i profitti avevano la prece­denza sulle persone e l’etica era del tutto igno­rata. Ricordo un reportage sul caso Volkswa­gen: quando la casa automobilistica tedesca ha installato un software destinato a eludere i test sulle emissioni, il carattere e lo stile di gestione dell’amministratore delegato Martin Winter­korn sono stati messi in discussione. Sebbene Winterkorn abbia affermato di non essere a conoscenza della tecnologia in questione, si è preferito descriverlo come un perfezionista che puntava ad assicurarsi il primo posto tra i pro­duttori di auto a livello mondiale. Mentre l’ac­caduto meritava probabilmente un’analisi delle criticità generate dal suo comportamento.

Nel 2015, Martin Shkreli, fondatore ed ex am­ministratore delegato della Turing Pharmaceu­ticals e autoproclamatosi “Robin Hood”, è stato arrestato per frode finanziaria e si è poi dimesso dal suo incarico. La startup Theranos di Eliza­beth Holmes è stata oggetto di indagini che han­no portato al fallimento dell’azienda, anche se entrambi si sono affidati impunemente alla loro discutibile leadership.

Contemporaneamente, mentre le organiz­zazioni si confrontavano con l’ascesa dell’era digitale, dei social media e di una forza lavoro più informata e impegnata, il paradigma ha ini­ziato a cambiare.

Nel 2014, Tim Cook è stato nominato dalla CNN miglior CEO dell’anno per la sua leader­ship in Apple. Quell’anno Cook ha presieduto a un aumento del 40% delle azioni dell’azienda, mostrando come Apple potesse innovarsi anche dopo la morte di Steve Jobs. In particolare, la sua nomina ha coinciso con un coming out. E in un articolo su Bloomberg Businessweek Cook si è definito orgogliosamente gay e ha raccontato di aver capito come ispirare altri membri della comunità LGBTQ.

Nel 2015 la rivista Time ha nominato l’allo­ra cancelliere tedesco Angela Merkel persona dell’anno (prima donna a ricevere questa nomi­na in 29 anni). Quell’anno la cancelliera aveva permesso a rifugiati e migranti di chiedere asilo in Germania, quando molti altri Paesi stavano chiudendo le frontiere. Secondo le stime, il nu­mero di persone entrate nel Paese è stato di 1 milione entro la fine di quell’anno.

Nel 2016, Hamdi Ulukaya, amministratore delegato di Chobani, si è offerto di concedere ai dipendenti azioni della società - una strategia non inedita, ma che ha permesso ai lavoratori della giovane azienda di trarre profitto da una IPO, ovvero un’azienda in fase di quotazione. Si è inoltre impegnato a fornire a tutti i tipi di lavoratori un’opzione di impiego, offrendo un posto di lavoro anche ai rifugiati. Il 2018 ha visto l’ascesa della leadership attivista, mentre i vertici aziendali hanno valorizzato i loro marchi affian­candoli alle questioni sociali. L’allora ammini­stratore delegato di Patagonia Rose Marcario si è impegnata a restituire 10 milioni di dollari di sgravi fiscali alle organizzazioni ambientaliste di base, l’ex amministratore delegato di Levi’s Chip Bergh, che ha guidato l’azienda attraverso un drastico cambiamento, e il fondatore di TOMS Blake Mykoskie, pioniere del modello “buy one give one”, hanno preso una netta posizione sul controllo delle armi in America.

Le competenze di cui i leader hanno bisogno ora

Questi sono solo alcuni esempi di come i leader nell’ultimo decennio abbiano risposto all’esi­genza di essere più flessibili, agili, collaborativi e stimolanti. Quando la pandemia ha dato il via alla diffusione del lavoro a distanza, si è reso ne­cessario uno stile di leadership ancora più fles­sibile e inclusivo. I leader si trovano a muoversi in reti di relazioni complesse e a gestire team sempre più eterogenei, distribuiti su diversi fusi orari e appartenenti a diverse culture.

Inoltre, l’ascesa del processo decisionale ba­sato sui dati ha portato a una maggiore attenzio­ne verso le capacità analitiche. I leader devono sfruttare i big data per prendere decisioni strate­giche e ottenere un vantaggio competitivo. L’in­tegrazione dell’intelligenza artificiale e dell’ap­prendimento automatico nei processi aziendali ha ulteriormente complicato il panorama della leadership, richiedendo ai capi non solo di com­prendere queste tecnologie, ma anche di antici­parne le implicazioni per le loro organizzazioni.

Non stupisce, quindi, che dare priorità alla lungimiranza, all’innovazione e alla capacità di ispirare e motivare gli altri sia una necessità. Anche l’intelligenza emotiva (EQ o EI, come vie­ne talvolta chiamata), termine coniato nel 1990, ha iniziato a evolversi in una competenza degna di nota nel corso degli ultimi dieci anni, come riferiscono varie ricerche accademiche.

Mentre molti leader si arrovellano per sfrut­tare al meglio l’intelligenza artificiale generati­va come ulteriore strumento competitivo dei team, Amy Edmondson, docente di Leadership alla Harvard Business School, sostiene che i trat­ti più importanti della leadership siano il corag­gio e l’umiltà. «Il coraggio di affrontare le sfide - concrete e interpersonali - che ci attendono», mi spiega Edmondson in un’intervista. «E l’u­miltà di rendersi conto di non avere le risposte, che devono essere individuate in modo collabo­rativo», aggiunge.

Secondo la Edmondson, la posta in gioco non è mai stata così alta. Nel 2014 i leader potevano essere validi, o almeno essere considerati tali dagli altri, grazie a un maggior grado di auto­assoluzione, spavalderia e persino arroganza. Potevano anche cavarsela giocando sul sicuro, senza correre rischi che avrebbero potuto met­tere a repentaglio la loro posizione. Ora i leader devono possedere “l’umiltà di rendersi conto che la leadership non riguarda il loro successo personale, ma fa la differenza per un’organizza­zione, un Paese o il mondo intero”.

Il deficit persistente di soft skills

Il deficit persistente di soft skills - Credit: FAUXELS / PEXELS

Leadership collaborativa: gli studi stanno dimostrando che un atteggiamento meno dominante garantisce alle aziende maggiore efficienza e soddisfazione dei team.


Il coraggio e l’umiltà, insieme all’empatia, all’autenticità e alla trasparenza, sono spesso considerati tratti essenziali per i leader mo­derni, nonché aspetti costitutivi di un’elevata intelligenza emotiva. Eppure molti sono anco­ra carenti in queste aree. La società globale di consulenza manageriale Korn Ferry ha rilevato che solo il 22% dei 155.000 leader possiede una forte intelligenza emotiva.


Empatia: la capacità di comprendere e condi­videre i sentimenti degli altri è costantemente supportata dalla ricerca. I leader empatici pos­sono costruire team più forti e coesi, aumentare la soddisfazione dei dipendenti e ottenere risul­tati migliori in termini di organizzazione.

Tuttavia, molti leader fanno tuttora fatica a manifestare un’autentica empatia. Le pressioni esercitate dal processo decisionale ad alto ri­schio e l’attenzione ai risultati finanziari spesso mettono in secondo piano la necessità di entra­re in contatto con i dipendenti a livello persona­le. Un rapporto pubblicato su Harvard Business Review rivela un divario tra il 78% dei senior lea­der che riconoscono l’importanza dell’empatia e il 47% che ritiene che le loro aziende la prati­chino effettivamente.


Autenticità: i leader autentici alimentano la fiducia e il rispetto, elementi cruciali per la co­struzione di solide culture organizzative e per il successo a lungo termine.

Gianpiero Petriglieri, professore associato di comportamento organizzativo all’INSEAD (Institut européen d’administration des affai­res), ha condotto ricerche e insegna che cosa significa e che cosa occorre per diventare un leader. Petriglieri ritiene che nei luoghi di la­voro attuali le persone instaurino «legami pro­fondi con il lavoro ma affiliazioni deboli alle organizzazioni, e che l’autenticità e la mobilità abbiano sostituito la lealtà e la progressione quali segni distintivi di virtù e successo».

Tuttavia, in un’intervista via Zoom, Petri­glieri mi ha riferito che se si analizza la leader­ship nei vari settori, è possibile ricondurla a un “modello dominante”. Secondo Petriglieri, si tratta di una persona che gode di grande vi­sibilità, che attira l’attenzione e che esercita la sua influenza. Spesso sono narratori di succes­so piuttosto che leader autentici.

La pressione esercitata dal dover mantene­re un’immagine pubblica curata e dal doversi destreggiare in un panorama politico com­plesso può indurre i leader a mostrare una facciata piuttosto che il loro vero io. Questa discrepanza tra il personaggio pubblico e la realtà privata può minare la fiducia e creare disillusione tra i membri del team. Eppure i lavoratori continuano a elevarli perché, come dice Petriglieri, abbiamo una «visione roman­tica del dominio».


Trasparenza: i leader che sono aperti e chiari sulle decisioni, sui processi e sulle intenzio­ni, favoriscono un ambiente di fiducia e di responsabilità, in cui i dipendenti si sentono informati e coinvolti nel processo decisionale. In un’epoca di crescente domanda di respon­sabilità sociale dell’azienda e di comporta­mento etico, costruire la fiducia attraverso la trasparenza è più importante che mai.

Una ricerca del MIT (Massachusetts Institute of Technology) dimostra che la fiducia sul po­sto di lavoro può offrire un vantaggio competi­tivo: porta a un aumento del 260% della moti­vazione, a una riduzione del 50% del turnover e del 41% del tasso di assenze.

La tendenza a nascondere le informazioni, sia per proteggere dati proprietari che per evitare conversazioni complesse, può genera­re una percezione di disonestà o di evasione. Questa mancanza di trasparenza può erodere la fiducia e ostacolare l’efficacia dell’azienda.

Non sempre è intenzionale. Alcuni leader non comprendono appieno le sfumature del concetto di trasparenza. Kieran Snyder, Chief Scientist Emeritus, cofondatore della piatta­forma AI Textio e fondatore di nerdprocessor. com, ritiene che la comunicazione e l’adegua­ta trasparenza siano le pietre miliari di una le­adership efficace in qualsiasi contesto.

«Questo non significa che tu, come leader, debba condividere ogni singolo pensiero che ti passa per la testa con ogni singolo interlocu­tore. Nessuno vuole lavorare per qualcuno di imprevedibile e caotico ma significa comuni­care in modo onesto e schietto, sia che le no­tizie siano buone, cattive o insolite», sostiene Snyder, e «Si crea fiducia quando le persone sanno di poter contare su di voi in quanto a sincerità e fermezza».

I leader che abbiamo

Le soft skills come la comunicazione, la traspa­renza e l’autenticità possono essere associate alla leadership trasformativa? Secondo un son­daggio condotto da LHH, fornitore globale di soluzioni per le risorse umane, quasi la metà (44%) ha dichiarato che l’intelligenza emotiva è più importante quando si tratta di guidare i team nei momenti di cambiamento.

Anche la professoressa Edmondson di Har­vard ritiene che queste caratteristiche siano es­senziali affinché la leadership abbia un impatto trasformativo. «Leadership significa fare le cose attraverso gli altri. I leader non fanno e non possono fare da soli il lavoro necessario per rag­giungere gli obiettivi di trasformazione. Devono invece ispirare e coinvolgere gli altri nel duro la­voro che li attende. L’unico impatto di un leader risiede nella sua capacità di coinvolgere i cuori e le menti degli altri, e questo ha a che fare con la comunicazione».

La Edmondson afferma quindi che «l’auten­ticità può funzionare solo se si è genuinamente dotati di un senso di decoro e di generosità di spirito. Se il vostro io autentico è egoista, mene­freghista o incurante, è improbabile che l’auten­ticità favorisca l’impatto positivo», spiega.

Purtroppo, sostiene Petriglieri, la mancanza di autenticità è proprio sotto la superficie delle proposte dei leader, quali la promozione della diversità o il congedo retribuito. Suggerisce che esse vengano in realtà utilizzate come strumenti per incrementare i profitti. In un articolo di opi­nione per Fast Company (nota: ho curato questo articolo) ha scritto:

«La maggior parte di questi sforzi consolida una visione della leadership che, detto senza mezzi termini, è un mezzo per raggiungere i pro­pri obiettivi e per fare le cose con stile. Se riesci a farlo, sei un leader. Se non ci riesci, non lo sei. Questo è l’anello mancante dei ritratti della lea­dership come virtù individuale o come insieme di strumenti che permettono a una persona di piegare le menti degli altri e di muoverne anche i corpi. Influenzare gli altri è più importante che rappresentarli. L’efficienza conta più della liber­tà. La partecipazione è concepita come un modo per inglobare le persone, più che per liberarle».

Petriglieri ha scritto questo articolo quattro anni fa, all’apice della pandemia e di un’ondata di disordini civili. Ora sembra che ci troviamo in un ulteriore momento di svolta, poiché le strut­ture aziendali globali si stanno trasformando e metà del mondo sta facendo scelte in elezioni molto importanti. Iniziamo a vedere i leader aziendali, accademici e politici allontanarsi dai temi della governance sociale e ambientale (ESG) e della diversità, dell’equità e dell’inclu­sione (DEI), insieme alle relative soft skills utiliz­zate per promuoverli.

Petriglieri non è sorpreso: «Ammiriamo an­cora un leader dominante», dice, spiegando che ciò che serve in primo luogo è creare la percezione che il leader “si preoccupi” dei suoi lavoratori o dei suoi seguaci. È qui che entra in gioco l’abilità della narrazione. Creando una storia di cura che le persone vogliono ascoltare, un leader può emergere. E, così facendo, si ele­va a quel modello dominante che riconosciamo. «Se quello è il modello, tutti coloro che si com­portano in quel modo sono dei leader», spiega. «Se individuiamo e valorizziamo un leader rela­tivamente egoista, dice, la narrazione sarà che ci lamentiamo del prodotto che realizziamo».

 

I leader che abbiamo

Lydia Romano Dishman
Giornalista e opinionista economica in forza a Fast Company, ha un lungo corso di collaborazioni
con importanti testate come Forbes e New York Time Magazine.