L’Arsenale delle democrazie

Difendere libertà e diritti è stato facile, fino a oggi. Non c’erano vere minacce ai valori occidentali. Con la guerra reale i paesi democratici tornano alle armi. Ma la sfida va oltre la brutalità dei razzi. Perché difesa oggi significa perseguire un ordine mondiale fondato sulla pace

Paola Peduzzi
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Credit: LOUIS REED / UNSPLASH


El Segundo è un’area a sud di Los Angeles, in California, incastrata tra l’aeroporto internazionale e Manhattan Beach, che nella Seconda guerra mondiale divenne famosa perché ospitava la Douglas, la compagnia aerospaziale che era nata per produrre aerei che potessero fare il giro del mondo e che invece costruì i bombardieri che fecero la differenza nelle battaglie nel Pacifico. Poi arrivarono Lockheed e le altre e questo diventò un distretto di innovazione militare. Oggi El Segundo è semplicemente “il Gundo” e nei suoi 14 chilometri quadrati affacciati sull’Oceano accoglie migliaia di ingegneri, programmatori, visionari che vogliono ricostruire e innovare l’arsenale della democrazia americana. È una comunità in continua espansione, uomini bianchi, giovani e conservatori (di donne ce ne sono pochissime e solitamente sono le compagne) che appendono bandiere americane enormi nei loro uffici, citano spesso la Bibbia, bevono intrugli energetici e latte appena munto, inventano armi sofisticate per difendere l’America e i suoi alleati.

Come è facile intuire i “Gundo boys” – come sono stati soprannominati dai giornalisti che si sono presentati in questi open space industriali in cui puoi portare un cappellino rosso trumpiano senza essere trattato come nel resto della California – sono in conflitto con la comunità più a nord, nella Silicon Valley, che rifiuta ogni contatto con l’industria della difesa e con le armi, anzi le disprezza. Fino a qualche anno fa i tanti tentativi del Pentagono di creare collaborazioni con il settore tecnologico venivano accolti con proteste e dimissioni: nella Silicon Valley si costruiva il progresso immaginando un mondo in cui le armi non sarebbero più servite. Poi la guerra di Vladimir Putin in Ucraina con le sue continue minacce di allargare il conflitto all’Europa e l’ascesa militare della Cina – che a Gundo è considerata la minaccia più grande e meno compresa dall’occidente – hanno cambiato ogni cosa: l’America, come i paesi europei, si è trovata a dover rivedere la programmazione dei propri arsenali e a doverlo fare con una certa urgenza. Soprattutto si è dovuta ricordare che se non c’è altro modo di difendere la democrazia che non siano le armi, è necessario essere pronti a farlo.

Uno dei fondatori di Gundo – si fanno chiamare così, hanno il mito delle aziende che arrivarono qui negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, si sentono pionieri incompresi dal resto del paese – ha dato una definizione di questa comunità: «Qui sappiamo che l’America is back, i ragazzi spaccano, la nicotina è buona, stiamo andando sulla luna di nuovo e pure su Marte, siamo stanchi delle aziende di software: è fantastico difendere il nostro paese e costruire armi che lo facciano». Tra il 2021 e il 2023, sono stati investiti 108 miliardi di dollari in aziende tech della difesa che costruiscono armi all’avanguardia, inclusi missili ipersonici, droni, sistemi di sorveglianza satellitare: l’istituto di ricerca PitchBook prevede che entro tre anni, questo mercato varrà almeno 185 miliardi di dollari.

Il Gundo racconta anche un’altra storia, più politica, che ha a che fare con il riavvicinamento del mondo tecnologico a quello trumpiano: un grande magazzino di quest’area, una ventina di anni fa, divenne la prima sede di SpaceX, società aerospaziale di Elon Musk, l’imprenditore che guida una cordata più o meno coesa (ma determinata) che vuole vincere la battaglia culturale più ancora che quella elettorale contro il pensiero liberal. Così, a questa nuova industria della difesa guidata da giovanissimi che amano dormire sulle brande come i soldati, è stata subito affiancata anche una teoria, che prende il nome di “effective accelerationism”, una emanazione del tecno-ottimismo che mescola il progresso tecnologico a un capitalismo senza controlli: sui social è chiamato “e/acc”, al posto della “e” spesso c’è una bandiera americana.

Al di là delle etichette ideologiche e delle loro origini, il Gundo è un hub che racconta molto del bisogno di protezione che l’America sente per sé e per i propri alleati, tanto da far convergere, ancora una volta, il soft e l’hard power. Il dipartimento della Difesa ha modificato le sue abitudini di acquisto e di appalto dando alle start up maggiori possibilità, avanzando dentro questo ecosistema militar-tecnologico finora impenetrabile. Lo scorso anno, il Pentagono ha annunciato il progetto Replicator, un’iniziativa per armare i militari con sistemi autonomi entro il 2025. La sua Defense Innovation Unit, che in realtà esiste da una decina di anni con lo stesso intento ma che finora era stata poco efficace, oggi ha molti più finanziamenti e molto più peso dentro al dipartimento.

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La nuova polarizzazione aggrega di volta in volta istanze nuove, ambientalismo, solidarietà ma anche bisogno di protezione per una crescita più giusta.


Lo sviluppo tecnologico è soltanto una parte di quel che serve per difendere le democrazie. Il modo di fare le guerre è cambiato ed è influenzato dalle intelligenze artificiali non soltanto per quel che riguarda il campo di battaglia ma ancor più per quel che c’è dietro, il comando e il controllo, che fanno e faranno una differenza strategica oltre che di equipaggiamento. Ma come sanno bene gli ucraini per difendersi servono ancora e in particolare le armi considerate tradizionali, e tantissime munizioni. Il Congresso americano ha stanziato in primavera circa 100 miliardi di dollari di aiuti militari per gli alleati, dopo un enorme ritardo politico determinato dall’isolazionismo del Partito repubblicano a trazione trumpiana.

La stragrande maggioranza di questi fondi resta in realtà negli Stati Uniti, per la produzione: c’è un equivoco enorme nella retorica conservatrice americana, che si rifiuta di armare gli alleati internazionali anche per ragioni economiche, sostenendo che quegli investimenti servono per altro – la riforma dell’immigrazione, per esempio – e che sguarnire l’arsenale americano diventa un pericolo per la sicurezza interna. La produzione degli armamenti avviene ovviamente in America, crea lavoro in America, rimpingua prima di tutto le riserve dell’America: non c’è bisogno di inoltrarsi in troppe analisi per sapere che l’economia di guerra crea un indotto consistente, ancor più se si considera che non è il territorio americano a essere attaccato e che non c’è alcun dispiegamento di soldati americani in Ucraina. Ma intanto il ritardo accumulato nella produzione di armi ha già avuto un costo nella guerra che è umano – come dicono i generali e i leader ucraini: voi contate i soldi e le munizioni, noi contiamo i padri e i figli – e pure politico, visto che si è diffusa l’idea dell’impossibilità di battere sul campo l’esercito russo.

Non siamo dentro una nuova guerra fredda: le alleanze sono variabili e dipendono dagli interessi comuni dei governi. Per questo la mappa dello scontro diviene meno rigida rispetto agli anni 60.

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Quel che avviene in Europa è molto simile, con l’aggravante che il continente europeo era poco attrezzato per un conflitto già prima che Vladimir Putin invadesse l’Ucraina. Il nuovo mandato della presidente della Commissione europea, la tedesca Ursula von der Leyen, è nei piani già molto più orientato al potenziamento dell’industria della difesa. Il dibattito sulla difesa comune europea, che tormenta l’Ue da molti anni e si sovrappone a quello sui fondi destinati alla partecipazione nell’Alleanza atlantica, ha avuto un’accelerazione necessaria e ora si sostanzia sulla capacità produttiva delle aziende europee. Questo non vuol dire che il processo sia oliato, anzi: in questi anni ci sono state molte iniziative al di fuori delle negoziazioni comunitarie – come il fundraising della Repubblica ceca per acquistare 800 mila munizioni – più piccole ma anche più rapide nella loro finalizzazione.
Resta ancora molto da fare: nell’aprile del 2023 era stato promesso un milione di munizioni a Kiev, ma un anno dopo ne era stato consegnata soltanto la metà e non c’è più un obiettivo temporale condiviso per mantenere la promessa.
Von der Leyen ha annunciato di voler introdurre un commissario per la Difesa che oggi, nel governo europeo, non c’è, ma pure se un coordinamento è necessario, la 
difesa resta una materia di competenza di ogni singolo stato. Anche la proposta di creare “uno scudo di difesa” in Europa, che è sempre nel programma di governo presentato a luglio da von der Leyen, è nella direzione giusta, ma non ha ancora né le risorse né una road map condivisa dai 27 paesi dell’Ue.

L’arsenale europeo è, in sostanza, una sommatoria di arsenali che dipendono dai governi nazionali, che cambiano, che hanno priorità interne da seguire, che subiscono la stanchezza dell’opinione pubblica nei confronti delle guerre che si protraggono a lungo.

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Ursula von der Leyen. La Presidente della Commissione europea ha parlato della necessità di una difesa comune nell’Unione.


La stanchezza è in realtà molto più profonda. C’entra con la guerra russa in Ucraina ma anche con il riassestamento in corso negli equilibri mondiali: chi vince e chi perde la battaglia più grande, quella dell’ordine globale? L’ultimo saggio di Anne Applebaum, “Autocracy Inc.”, è un’ottima lettura non tanto per avere una risposta, ma per comprendere cosa vuol dire oggi proteggersi dall’aggressione autoritaria, e con chi allearsi per farlo. Applebaum è una grande esperta di Russia, ha vinto il premio Pulitzer per il suo imprescindibile “Gulag”, è conservatrice e ha raccontato come le destre globali si sono estremizzate, vive tra gli Stati Uniti, la Polonia e molti viaggi in Ucraina e Taiwan. 

Come prima cosa dice: non siamo di fronte a una Guerra fredda 2.0, non c’è un monolite comunista da combattere in alcuni paesi e in altri no, le alleanze sono variabili e dipendono più dagli interessi in comune di alcuni governi, dai soldi a disposizione, dall’aiuto reciproco nel mantenersi al potere. In quest’ottica la mappa dello scontro diventa molto meno rigida rispetto a com’è stata fino al 1989 e comprende anche le ipocrisie che più sconvolgono l’opinione pubblica e quindi gli equilibri, come il commercio (delle armi, ma non solo) con paesi su alcuni fronti ostili e su altri alleati. 

Non c’è una qualche stanza segreta in cui i cattivi si riuniscono, come in un film di James Bond”, scrive Applebaum: “Tra gli autocrati moderni, ci sono quelli che si definiscono comunisti, altri monarchici, nazionalisti, teocrati. I loro regimi hanno origini storiche differenti, obiettivi differenti, un’estetica differente: il comunismo cinese e il nazionalismo russo non sono soltanto diversi tra loro, ma lo sono anche rispetto al socialismo bolivariano del Venezuela, allo juche della Corea del Nord, al radicalismo sciita della Repubblica islamica d’Iran. E questi sono ancora diversi dalle monarchie arabe di altri paesi – l’Arabia saudita, gli Emirati, il Vietnam – che non fanno di tutto per compromettere il mondo democratico. E sono ancora diversi dalle autocrazie più morbide e le democrazie ibride, spesso definite democrazie illiberali – Turchia, Singapore, India, Filippine, Ungheria – che a volte si alleano con il mondo democratico e a volte no. Al contrario di come funzionano le alleanze militari e politiche di altre parti del mondo e di altri tempi, questo gruppo di paesi non opera come un blocco, ma come un agglomerato di aziende, tenuto insieme non dall’ideologia, ma da una determinazione spietata di preservare il potere e la ricchezza: “Autocracy Inc.”, appunto. Applebaum fa anche l’elenco degli “uomini forti” che guidano i paesi membri di questa società per azioni – “Russia, Cina, Iran, Corea del Nord, Venezuela, Nicaragua, Angola, Myanmar, Cuba, Siria, Zimbabwe, Mali, Bielorussia, Sudan, Azerbajan e forse un’altra trentina di nazioni” – che condividono la determinazione a sopprimere il dissenso interno, a difendersi uno con l’altro quando e dove serve e che sono tenuti insieme “non dalle ideologie ma dai deal – deal progettati per ovviare alle sanzioni, per scambiarsi tecnologia di sorveglianza, per aiutarsi uno con l’altro a diventare ricchi”.

In questa prospettiva la competizione geopolitica assume un altro significato ed è per questo che l’arsenale della democrazia – fatto di valori e di armi – deve adattarsi a combattere un altro genere di sfida, smontando non soltanto una ispirazione antioccidentale, ma anche un sistema di interessi e di affari, ovunque questo si trovi a operare. È in questo contesto che si colloca anche Donald Trump, un grande sostenitore della logica del deal, delle transazioni come strumento di governo del mondo. Applebaum fornisce una serie di strumenti utili a combattere Autocracy Inc., dal punto di vista valoriale, del commercio ma anche tecnologico (sorveglianza, intelligenza artificiale, Internet Of Things), promuovendo standard di trasparenza e di responsabilizzazione contro le aggressioni economiche e militari. Secondo la saggista, non esiste più un ordine globale liberale e l’ambizione a crearne uno non è più reale: esistono società libere e aperte che offrono opportunità migliori alle persone di quelle offerte dagli uomini forti di Autocracy Inc. Questa è la risorsa essenziale di protezione, che ci si trovi a Gundo o in Europa o nelle associazioni che combattono per preservare la libertà nei loro paesi. Applebaum dedica il suo libro agli ottimisti, perché il pessimismo è l’arma di Autocracy Inc., non di chi costruisce protezione, arsenali, democrazie.

 

Paola Peduzzi
Vicedirettore de Il Foglio, si occupa di politica internazionale, in particolare europea, inglese e americana.
Cura un approfondimento settimanale europeo che è anche un podcast, EuPorn – Il lato sexy dell’Europa.